Per-Donare - Una critica
femminista dello scambio


Per-Donare - Una critica femminista dello scambio

Genevieve Vaughan, 2002

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Per-Donare: Una critica femminista dello scambio, 2

Capitolo diciottesimo: Gli agenti non-mascolati del cambiamento

Capitolo diciottesimo: Gli agenti non-mascolati del cambiamento

Le donne danno gratuitamente ai figli dai propri seni (e in infiniti altri modi), però, dal momento che viene data eccessiva importanza al pene, noi donne veniamo considerate donatrici per una “mancanza” della “mar-ca”; e visto che la scarsità è stata creata per privilegiare l’avere, noi donne in realtà diamo in un ambito economico di mancanza. Tutto questo è aggravato dal fatto che gli uomini rinunciano all’economia del dono. Lo scambio “dà” il dono del non-dare, mentre il seno rappresenta concretamente il dono del dare.

Possiamo immaginare i seni come il modello originario dell’indice: il capezzolo è l’indice e la bocca del neonato è l'”oggetto” che viene scelto tra tanti e richiamato alla nostra attenzione. Quindi i “punti” di vista vengono ribaltati: per il neonato, la propria bocca è al centro del-l’attenzione e il capezzolo è l'”oggetto” scelto tra gli altri; poi l'”oggetto”, in effetti, risponde indicando, e dà il latte. Oppure, per la madre, se l'”oggetto” non sta puntando indietro con la bocca e la lingua, almeno “coglie il punto” e riceve il latte.

Proviamo a considerare l’avere come avere i seni, avere qualcosa da dare 1 . Noi siamo mammifere. Anche se i maschi hanno dei seni piccoli, ci sono sicuramente molti modi in cui loro e le donne che non stanno allattando possono nutrire/dare cure agli altri (in realtà il pene viene “dato” a un’altra persona solo quando il bambino diventa adulto, ma, alla vista e al confronto, viene dato molto prima).

Questi modi sono stati male interpretati, nascosti e mascherati attraverso il discredito e l’isolamento della pratica materna sin dall’infanzia, e attraverso l’attenzione primaria che il patriarcato dà all’esemplare, allo scambio, al riflesso, all’avere e tenere. Le modalità del dare includono, tra le altre cose, il linguaggio, la soluzione dei problemi e la produzione di beni e servizi come un provvedere ai bisogni senza l’intermediazione del meccanismo del-lo scambio, derivato dalla mascolazione. “Avere” è anche avere le mani, gli strumenti che possono essere usati per dare e per dare cure. Le mani non servono solo a fabbricare utensili (o, peggio ancora, a fabbricare armi).

L’auto-duplicazione dell’esemplare

Il dono che il padre sembra dare al figlio (il dono del pene) è il dono dell’affinità o dell’uguaglianza, ed è il va-lore che viene dato all’uguaglianza, all’equazione in sé, al figlio in quanto uguale al padre che è la norma nonnutrice a sua volta legata analogamente al nonno. È un dono carico di significato, perché l’uso psicologico che se ne fa nella società, l’errata interpretazione che gli vie-ne attribuita, crea un bisogno artificiale. Per questo il figlio deve cercare di soddisfare quel bisogno diventando come il padre. Anche il padre ha bisogno che il figlio sia simile a lui, così da poter raggiungere la posizione di esemplare, il proprio mandato di genere che lo rende un equivalente rispetto al quale non solo ogni donna ma anche gli altri maschi (più piccoli) sono relativi.

Nel patriarcato, il padre deve dimostrare che si è riprodotto da solo. Deve dimostrare che, grazie al pene indiceesemplare, ed essendo lui stesso l’esemplare del maschio, ha anche il potere creativo di fare altri a sua immagine (dimostrando che il potere creativo non è tutto nell’esem-plare materno, che lui ha offuscato). Alla base dell’osses-sione degli uomini per la paternità non c’è quindi solo la relazione di possesso ma anche l’adempienza al mandato della forma del concetto come realizzazione della propria identità di individuo, di genere e di specie. Sebbene funzioni così da generazioni, questa “logica” contribuisce a creare una prospettiva completamente falsa 2 .

Mi sembra probabile che la sovrapposizione delle diverse incarnazioni uno-molti del concetto l’una sull’altra sia stata come un dott. Frankenstein che ha creato il mostro bianco del patriarcato. Nelle società in cui la funzione educativa del padre spetta al fratello della madre, il fallo non ha bisogno di essere enfatizzato come esemplare che di fatto “crea” il bambino. In queste società la trasmissione della cultura attraverso l’insegnamento e la disciplina viene distinta dalla sessualità; colui che svolge un ruolo disciplinare (il fratello della madre) non ha bisogno che il bambino sia come lui. In queste società sembra ci sia poca violenza e che lo stupro sia praticamente sconosciuto (Watson – Franke 1993).

I maschi, come le femmine, hanno bisogno di restare nella modalità del dare e ricevere, così che le loro identità possano formarsi attraverso la co-muni-cazione materiale e segnica, creando una soggettività costruita su un’interazione in continuo mutare di nutrimento/cure con gli altri (un’interazione che implica anche il prendersi reciprocamente a modello l’uno dell’altro e fare a turno), invece che sul mandato artificiale e assurda di raggiungere l’astratta posizione di uguaglianza con l’esem-plare. A peggiorare le cose, questa posizione di uguaglianza ha nascosti in sé in modo contraddittorio due livelli di superiorità (di ineguaglianza): una categoria superiore di chi è diverso dai donatori e uguale all’esemplare (e che potrebbe, perciò, diventare lui stesso esemplare), e un’altra di chi è superiore perché è già esemplare. Il mandato crea competizione laddove non sarebbe necessario, e fa sì che metà dell’umanità convalidi come modalità di comportamento il dominio e la sopraffazione.

Poiché s’impone come norma, questa modalità si estende dunque all’intera umanità, portando chi ha altri valori a essere subordinato, invisibile e non abbastanza umano. Essa pone le persone “uguali” in una categoria e che sembra conferire ai “membri” il diritto di farsi dare dagli altri attraverso l’uso della violenza e/o le gerarchie organizzate, l’esercito o la polizia. Riapplicando a questa situazione la stessa logica del concetto (che richiede una relazione “uno-a-molti” per sviluppare generalità), scopriamo che ciò che più si confà a questa logica non è la felicità degli esseri umani, bensì il fatto che poche persone siano gli esemplari generali per le loro diverse categorie; e questo significa, ovviamente, che i molti non diventano “esemplari”. Abbiamo così, ad esempio, molte persone organizzate in gruppi nazionali, ognuno dei quali ha delle gerarchie interne guidate da pochi uomini, con un uomo alla testa.

Considerando i principi della forma del concetto come logica della specie e coloro che hanno successo in es-so come gli esemplari della specie (dimenticando che le donne fanno le cose in modo diverso), il dominio, la sopraffazione e il tentativo di incarnare l’esemplare del concetto e l’esemplare della specie diventano le forme di comportamento convalidate.

Purtroppo, le donne hanno alimentato questo stato di cose e gli sforzi dei figli e dei mariti che vogliono riuscirci. Adesso, anche noi abbiamo cominciato a prenderviparte. Fortunatamente, la nostra “mancanza” del pene ha dimostrato, ancora una volta, che esso non è l’esem-plare della specie e che non è indispensabile per riuscire nel sistema. Pur avendo probabilmente reso sospetta la superiorità maschile, tale fatto non ha smantellato il mandato e la sua logica ma li ha semplicemente spostati ad altre categorie. Adesso, ad esempio, tutti gli abitanti dei paesi privilegiati possono considerarsi loro stessi privilegiati, o “esemplari”, rispetto agli abitanti di altri paesi che “dovrebbero” per questo dare loro e servirli. Tutte le persone che appartengono a una stessa razza, sia maschi sia femmine, possono considerarsi superiori rispetto ad altre razze e possono “dimostrarlo” dominando altre razze (e facendosi dare da queste, che assumono così i compiti di nutrimento/cure “femminili”).

Sebbene tutto questo possa sfociare in comportamenti orribili e vergognosi degli individui di un gruppo contro altri, questi stessi comportamenti adempiono a un mandato maschile considerato per secoli “umano” dall’Occi-dente e da molte altre società. Si tratta perciò di un sistema basato su una falsa logica, e questa, non gli individui, deve essere ritenuta la responsabile; è il sistema che deve essere smantellato. Cambiare gli individui senza cambiare la logica e i principi non fa altro che ricreare lo spazio perché altri individui seguano ancora la stessa logica e principi. Come dice un vecchio detto: “Pur dando a tutti le stesse opportunità in partenza, solo alcuni arriveranno comunque in alto”. Questo vuol dire soltanto che, finché non individueremo la malattia e non la cureremo, alcuni individui continueranno a inscenare quei principi a detrimento di altri che non hanno la “spinta” o l'”ambizione” (leggi: “che non sentono il bisogno di diventare esemplari”). La malattia è una sorta di “virus” auto-duplicante (che deriva forse da vir, la parola latina per “uomo”).

Le “marche” dominatrici

Un esempio di imposizione di un gruppo come esemplare su altri è l’invasione europea delle Americhe. La superiorità tecnologica degli europei non fu la sola causa che portò al genocidio delle popolazioni native, bensì il fatto che gli europei fossero portatori della mascolazione a diversi livelli: misoginia, proprietà privata, linguaggio, economia, religione, filosofia, educazione dei figli, legge, architettura, agricoltura ecc. erano tutte cose molto diverse presso le culture locali. Sarebbe anche potuta andare diversamente: gli europei avrebbero potuto imparare dai popoli nativi invece di distruggerli.

Dopo essersi imposti come categoria “superiore” rispetto a un intero emisfero, i nostri antenati acquisirono anche la proprietà uno-molti di altri esseri umani come schiavi, costringendoli a dare i doni che servivano al loro profitto e consentivano l’accumulazione del capitale dei proprietari di schiavi. La categoria dei “superiori” deve essere facilmente identificabile da moltissime per-sone; questa è stata la funzione principale del pene nella categorizzazione. E la pelle bianca ha lo stesso scopo: in entrambi i casi, la “marca” della “superiorità” inverte il ruolo della madre, facendo sembrare l’anormalità una norma e il donatore inferiore e anormale. Se la mascolazione e lo scambio non fossero una modalità di vita nella società, questa dinamica non esisterebbe.

Gli europei ipermascolati uccisero e ridussero in schiavitù la popolazione meno mascolata nelle Americhe e in Africa, “dimostrando” così di trovarsi in una categoria “superiore” (più maschile), che era la norma e consentiva la loro simbolica e infinita crescita fallica, mascolandoli in una classe ancora più alta della categoria “superiore”. Anche avere molti soldi permetteva loro di comprare, produrre e costruire oggetti con i quali potevano venire ancora identificati come appartenenti alla categoria “superiore”, i privilegiati tra i privilegiati. Case, veicoli, gioielli, vestiti, grattacieli, pistole, educazione, viaggi: tutto ciò può essere acquistato ed è prova macroscopica e percettivamente evidente dell'”avere”, che continua a collocare gli “aventi” nella categoria privilegiata.

Io credo che i paesi del cosiddetto “Primo Mondo” siano diventati oggi le “categorie superiori”, identificabili per la loro collocazione fisica e i documenti di cittadinanza, e che questi stiano costringendo i paesi del “Terzo Mondo” a dare loro mediante meccanismi politici, culturali ed economici che risultano generalmente invisibili agli occhi dei cittadini. Lo sfruttamento che è in atto potrebbe rimanere ancora invisibile se non fosse per gli enormi flussi di immigranti che tentano saggiamente di collocarsi nella categoria geograficamente privilegiata. Corriamo il rischio, attraverso i meccanismi del “libero mercato”, di incrementare lo schema dei paesi dominanti-maschili e dei paesi donanti-femminili, che si svilupperebbe, infine, in paesi schiavi e paesi di padroni di schiavi. Sulla terra è sancita a grandi lettere la mascolazione (e mi ha sempre meravigliato l’adeguatezza del nome di Castro).

L’esistenza quantificata

Il tendere verso l’altro delle madri ci dà, tra le altre cose, corpi, linguaggio e socializzazione verso i nostri ruoli di genere. Noi, però, siamo motivati dalla possibilità di ricevere di più attraverso la definizione come è successo attraverso possibilità di essere denominati “maschio”. Coloro che accumulano profitto trasformano gli altri nelle loro madri mascolanti; si fanno dare dagli altri, dimostrando di “meritare” il profitto proprio perché danno loro in modo limitato e li usano come mezzi.

Forse è anche per l’aspetto che il denaro ha di essere una “parola” unica, singolare, e per la mancanza di accesso al sistema di una langue diversa qualitativamente (e quindi per la nostra incapacità di esplorare la varietà dei valori pronunciabili nella loro relazione reciproca), che il denaro e il valore di scambio mantengono la propria egemonia sociale, comparendo e scomparendo molto rapidamente, nel passare di mano all’interno del processo di scambio. La cosa che significa la parola materia-le “denaro” è il prodotto (il potenziale dono) sottoposto allo spostamento, della sostituzione della logica (e l’atto) della sostituzione per la logica (e l’atto) del dare, cioè lo scambio. Il valore-nella-comunicazione di quel significato è il valore di scambio, espresso in una specifica quantità di denaro. Sebbene una langue non sia presente a questo livello materiale per mantenere un complesso di valori-mediatori diversi qualitativamente, l’auto-simila-rità della sostituzione del prodotto con il denaro e del dare con la logica dello scambio crea un meccanismo auto-convalidante che mette continuamente in evidenza lo scambio nascondendo la pratica del dono 3 .

Il capitalismo unisce mascolazione e scambio, dando a ognuno di essi un nuovo obiettivo. Per la mascolinità, il nuovo obiettivo è accumulare ricchezza fallicamente; per lo scambio, è ripetere continuamente il processo della mascolazione, quindi accumulare e avere “di più”, meritare un “nome” equivalente quantitativo o mascolante ancora più grande e porre il proprietario nella categoria a cui vengono dati sempre più doni gratuiti non visti.

L’esistenza è identificata con la mascolazione, e così diventa quantificabile: questo dà alla gente uno stimolo ad avere di più, per poter essere qualcosa in più. Il potere e la potenza sono immersi in una spirale negativa tendente verso l’alto, per la quale alcuni uomini (e donne) “di successo” possono diventare più mascolati di altri – esistere di più – avendo più “valore” quantitativo. Questi individui sembrano, perciò, meritare maggiormente di esistere, la qual cosa permette alla classe alta di auto-convali-darsi e di giudicare chi viene da loro sfruttato come “meno meritevole di esistere”, o forse già “meno esistente”.

Il pensiero viene posto alla base dell’identità competitiva autoritaria (dello scambio). La capacità di attuare le definizioni e le sostituzioni è un processo ripetibile riconoscibile, che fornisce una costanza interna (io = io) e si concentra sull’ambito di esclusione mutua necessario alla proprietà privata e al successo della competizione e dell’attività orientata verso l’ego (con i processi continui e variati del dare e ricevere doni si creerebbe invece un’identità interiore positiva). Lo scambio strumentalizza la soddisfazione dei bisogni altrui per la soddisfazione dei propri e viene continuamente supervalutato rispetto al dare. Chi ha la volontà impegnata nell’avere (e nell’avere più degli altri) sembra essere pensante e razionale, mentre chi continua a praticare il dare derivando da questo la propria identità, sembra “irrazionale”.

Il capitale è la volontà mascolata

Il capitalismo è mascolazione per accumulazione. È meno sessista della definizione di genere perché permette ad alcune donne di essere “aventi” (persino “aventi che si sono fatte da sé”). Tuttavia, anche le donne di successo sembrano ancora esistere – e meritare di esistere – meno degli uomini mascolati. Il loro maggiore contatto con le (emozioni, che potremmo definire come la presentazione interiore dei bisogni), pone le donne parzialmente al di fuori della razionalità del capitalismo. Le emozioni sembrano perciò la “ragione” per cui le donne (e gli uomini) che hanno emozioni mal si adattano all’e-conomia dello scambio.

In una situazione in cui gli esseri umani sono competitivi e dominanti nella comunità, e si usano reciprocamente come mezzi, l’e-mozione umana è solo un accenno di ciò che sarebbe stato possibile al di fuori delle “ragioni” (ratios) auto-similari. È la nostra emozione ir-ra-zio-nale che continua a fuoriuscire verso i bisogni degli altri, anche quando siamo bloccati, tagliati fuori dalle azioni che potrebbero rispondere ai bisogni. Forse noi donne continuiamo a provare queste sensazioni più degli uomini mascolati perché ancora pratichiamo il dare. Sono modi di tracciare il cammino verso un mondo migliore. La gioia è la celebrazione dei bisogni soddisfatti, la danza divinamente scandita dell’anima libera dalla gabbia dello scambio, che vive infine in armonia con se stessa e con gli altri.

Dal danno che è la creazione violenta di nuovi bisogni scaturisce la rabbia, e le forti emozioni si oppongono all’ingiustizia che è danno istituzionalizzato.

La questione della giustizia è strettamente legata al bisogno di definire alcuni tipi di azioni in quanto dannose.È il fallimento di queste definizioni a influenzare il comportamento che stimola la rabbia e la volontà di vendicare chi è stato danneggiato. È invece possibile promuovere tali definizioni senza la rappresaglia, che fa parte del paradigma dello scambio, e prevenire i crimini soddisfacendo i bisogni che li provocano prima ancora che l’impulso a commetterli abbia avuto la possibilità di svilupparsi. Ma una soluzione di questo tipo è impossibile a causa della scarsità necessaria al paradigma dello scambio e per via delle evidenti ingiustizie che restano non definite e sembrano ormai far parte di un sistema immutabile.

Il capitale è l’ego mascolato; è attribuzione di valore incarnato nello spostamento verso lo scambio, volontà mascolata, che dirige l’energia verso l’accumulazione di maggiore ricchezza e potere; è il desiderio e la capacità di essere di più. Più denaro è, infatti, più essere e più capacità di sostituire, di prendere-il-posto-di. Il “libero arbitrio” del capitale, come il libero mercato, non è realmente libero; è rivolto alla sopravvivenza e alla supremazia di se stesso, secondo il mandato della mascolazione. In altre parole, non è libero di praticare il dare e il nutrire/dare cure (poiché vorrebbe dire contraddirsi, praticare il masochismo, non creare la scarsità per gli altri, non accrescere la propria abbondanza). La pratica del dono è inadeguata ai suoi scopi. Alla pratica del dono non viene dato valore perché il valore, per lo scambio, è rinchiuso nella sua stessa auto-similarità e non riconoscere il dare permette di occultare lo sfruttamento oppressivo dello scambio “equo”.

Il libero mercato e il libero arbitrio capitalistico sono ossimori, se si considera il termine “libero” (free) come “gratis” (free) (anche andare a fare le compere è un lavoro gratis, anche se non riconosciuto: è il lavoro della “libera” scelta. Non siamo liberi se non compriamo e non scegliamo, perché non mangeremmo. Se non avessimo denaro, non saremmo liberi di comprare e di scegliere; non “meriteremmo” di essere). Ma anche leggendo “libero” come “libero da obblighi”, il mercato e la volontà sarebbero liberi per chi li pratica al prezzo di costrizioni maggiori per le loro vittime. Gli esecutori del libero mercato e del libero arbitrio capitalistico sono liberi dall'”orientamento verso l’altro”, dall’impegno di servire i bisogni degli altri, e devono esserlo se vogliono avere successo. Alcune delle nostre multinazionali sono persino più mascolate dei nostri singoli figli (maschi).

Ciò che consideriamo l’etica del libero arbitrio non è altro che la possibilità dei singoli ego mascolati di scegliere secondo valori più “altruistici” in contraddizione con la loro socializzazione al potere, o che permetta loro di limitarsi alle equazioni di “giustizia” (mentre quasi tutte le donne scelgono già con una “voce differente”). Valendosi della capacità di dare cure che hanno accantonato, gli uomini contraddicono le loro volontà mascolate di dominio e di essere “più”, accettando le “costrizioni” dell’orientamento verso l’altro.

Nello stesso tempo, chi è stato socializzato a cure è libero d’imitare i modi mascolati, adattandosi a una società malata; può sviluppare un ego dello scambio lavorando nell’ambito delle proiezioni sociali della mascolazione, come il mercato, sposando i valori del patriarcato. Le donne continuano però a essere socializzate diversamente, verso il dono; e per questo sono sempre potenzialmente in una posizione di malattia/disagio (dis-ease) all’interno del sistema, e in conflitto interiore con loro stesse.

Le donne tendono inoltre a scegliere l'”umiltà”, criticandosi per una mascolazione che per loro non funziona, cercando di sbarazzarsi di un difetto che in realtà non hanno. Esse criticano la mascolazione come se fosse una loro parte, invece di riconoscerla come, al limite, l’interiorizzazione di uno schema auto-similare maschile (rispetto al quale non sono “uguali”) e della società nel-l’insieme. Le donne affollano così le chiese, le sedute terapeutiche e i gruppi di sostegno collettivo, ispezionando le loro anime in cerca di qualche traccia di arroganza o mania di potere, mentre in realtà non sono altro che le vittime del comportamento mascolato di mariti, capi, scuole, università, uffici, governi e altre istituzioni patriarcali. Pur creando una comunità e dei valori comuni, quasi tutti gli approcci “curativi” continuano a nascondere i valori del dare che gli danno vita, al riparo dalla cortina fumogena dei valori mascolati di autonomia, responsabilità, colpa e punizione individuali.

Se guardiamo al capitale come volontà mascolata, possiamo vederlo libero di acquisire potere, di “essere di più” a discapito di altri per un’infinita accumulazione. Praticare la filantropia permette al capitalista di effettuare la “libera” scelta dell'”orientamento verso l’al-tro” nel contesto di ciò che già esiste, continuando a “fare soldi”. Gli atti caritatevoli permettono al capitalista di diventare una persona “più completa”, compensando lo scambio con la pratica del dare e soddisfacendo allo stesso tempo alcuni degli stessi bisogni creati dalle istituzioni e dai sistemi patriarcali mascolati 4 . Una tale attitudine è probabilmente più sana dello sfruttamento indiscriminato, ma si limita a migliorare il destino di pochi individui trasformando l’individuo donatorecaritatevole in un individuo più buono. L’orientamento verso l’ego del sistema si appropria della pratica del dono e ci incoraggia a usare i nostri doni, rivolti agli altri, per il miglioramento di noi stessi.

È solo dando per il cambiamento sociale da un metalivello, – con un meta-messaggio che dice: “Questo do-no co-municativo è fatto per cambiare il sistema verso la pratica del dono” – che il capitale-volontà diventerebbe generale, liberato e liberante; dando per cambiare lo stesso sistema (dello scambio) che lo ha creato. Questa scelta libererebbe il capitalismo dalla mascolazione e, provvedendo alle risorse finanziarie, libererebbe infine tutti noi per poter nutrire/dare cure, per praticare un’e-conomia del dono, la modalità delle donne. Chi occupa una posizione privilegiata, non può creare un cambiamento pretendendo di non essere privilegiato, o semplicemente dando via le proprie “marche quantitative” per diventare individualmente non privilegiato. Si dovrebbe, piuttosto, trovare il modo di usare il proprio privilegio su un meta-livello per convalidare il modello e la logica del dare al posto del modello dello scambio.

Ho sentito una frase che viene attribuita a Winston Churchill: “Il punto non è distribuire equamente la povertà, bensì distribuire equamente la ricchezza”. A parte l’uso della parola “equamente”, mi sembra un’idea molto importante: dobbiamo centrare l’attenzione sulla ricchezza per tutti, non su un nuovo sistema di povertà per tutti. Non è rendendoci tutti ugualmente poveri che cambieremo il sistema per il bene di tutti. Solo l’abbon-danza permetterebbe infatti il prosperare della pratica del dono. Dobbiamo perciò usare la nostra ricchezza di risorse, il denaro accumulato nel capitale, la nostra terra, la nostra educazione, esperienza, capacità comunicativa, sapere politico, psicologico e organizzative, i nostri gruppi e reti per creare una transizione intelligente, non violenta, dal sistema basato sullo scambio a un sistema basato sulla pratica del dono nell’abbondanza.

Un passo nella giusta direzione sarebbe arrestare la spesa enorme che viene sprecata oggi in tutto il mondo sugli armamenti e sugli eserciti. Un altro passo sarebbe per-donare il debito del cosiddetto “Terzo Mondo”, con la consapevolezza che il debito non è altro che un meccanismo artificiale di sfruttamento che in realtà è già stato ripagato milioni di volte. E ancora, fermare la distruzione dell’ambiente, assicurerebbe l’accrescimento del-l’abbondanza nel futuro invece di farlo sparire in un ecosistema artificialmente impoverito e tossico. Una riduzione ben pianificata dello sfruttamento e dello spreco consentirebbe l’accumulazione di una ricchezza destinata alla pratica del dono tra gli individui, come anche tra i gruppi e le nazioni.

Una leadership delle donne

Per il modo in cui le categorie della mascolazione hanno proliferato, molti di noi appartengono a varie categorie differenti: siamo privilegiati in quanto bianchi, ma non privilegiati in quanto poveri; siamo privilegiati come ricchi, ma non privilegiati come donne; siamo privilegiati come maschi, ma non privilegiati come persone di colore. Dobbiamo unirci attraverso le categorie non privilegiate perché siamo consapevoli della sofferenza, ma abbiamo anche bisogno di unirci dall’interno delle categorie privilegiate per trovare un rimedio alla sofferenza, per cambiare il sistema per tutti. Se ristabilissimo il modello materno e ci preparassimo alla logica dell’e-conomia del dono, potremmo prestare attenzione ai bisogni degli altri e soddisfarli, non solo a un livello individuale, ma anche sociale. La vera svolta non consiste nel porre una categoria piuttosto che un’altra in una posizione privilegiata, bensì nel mettere in atto l’orientamen-to verso l’altro basato sulla madre come normalità gene-rale, che superi e abbatta ogni categoria.

La mascolazione convalida l’interesse egoista su tutti i livelli (anche quello di una categoria o gruppo); dobbiamo anche essere altresì capaci di convalidare l’inte-resse dell’altro su tutti i livelli. La risposta non è certamente nelle categorie, ma nel dare e ricevere, nel co-mu-nicare l’uno con l’altro quali esseri umani e nel collaborare per risolvere i problemi generali, i bisogni di tutti, cambiando il sistema costruito sulla mascolazione.

È questo il cambiamento di paradigma cui aspirano la New Age e gli altri movimenti spirituali. Esso non si basa solo sulla consapevolezza – anche se questa ha un ruolo importante nel necessario spostamento di prospettiva –, ma sulla reale e pratica soddisfazione dei bisogni e soluzione dei problemi. A una tale pratica devono contribuire una certa lungimiranza e una sensibilità culturale, che individuino i possibili modi di soddisfare i bisogni psicologici e spirituali, come i bisogni di dignità e rispetto, per l’indipendenza e l’autodeterminazione di chiunque stia compiendo la transizione dallo scambio alla modalità del dono. Il cambiamento di paradigma può essere attuato dalle donne, al di là di ogni categoria. Le sue operatrici si trovano già in tutto il mondo, nel movimento internazionale delle donne; gli agenti non mascolati del cambiamento sono già presenti in tutte le case.


1. È forse per questo che ci è chiesto di coprirli; perché sollevano la questione dell’abbondanza e del paradigma del dono? Torna alla nota 1 nel testo.↩

2. Anche le donne possono seguire i passi del padre, entrando in competizione con altre donne che hanno un ruolo materno e offuscandole. General-mente queste donne vengono poi a loro volta offuscate dagli uomini. Le femministe devono capire che non è prendendo più doni nascosti e cancellando il donatore che riusciremo a migliorare il mondo. Dovremmo invece promuovere la logica del dono e rispettare il modello di chi lo pratica in tutti gli ambiti della vita. Torna alla nota 2 nel testo.↩

3. Il denaro è attaccato all’immagine di se stesso. La faccia del re o del presidente sulle monete è forse l’immagine stessa dell’auto-similarità. Torna alla nota 3 nel testo.↩

4. Anche un gruppo come l’United Way, che raccoglie milioni di piccoli contributi, li incanala in progetti che si prendono cura degli individui senza agitare troppo le acque. Torna alla nota 4 nel testo.↩

Capitolo diciannovesimo: Sogno e realtà

Capitolo diciannovesimo: Sogno e realtà

Io penso che la separazione tra conscio e subconscio possa essere una sorta di riproduzione interiore dei due paradigmi e (forse anche l’emisfero destro e sinistro delcervello riproducono questa separazione). È ovviamente difficile capirlo perché, almeno quando siamo svegli, è sempre all’interno della coscienza che siamo presenti a noi stessi; e nella coscienza, spesso serviamo la nostra definizione di noi stessi, attuando le sue profezie che si auto-avverano.

I doni delle parole covano negli strati profondi della nostra mente, pronti a saltare fuori quando è necessario. Sono lì che vibrano, in risonanza con le parole dello stesso tipo di tutte le altre persone. Muovendoci nel mondo esterno, ogni cosa in cui ci imbattiamo assume la caratteristica di un potenziale rapporto con le nostre parole e le loro combinazioni, e/o con le parole degli altri. I nostri bisogni comunicativi di legami reciproci in relazione con il mondo sorgono e vengono soddisfatti dai prodotti collettivi delle generazioni precedenti, che noi ricombiniamo collettivamente e individualmente e che usiamo poi per creare doni sempre nuovi, a cui le parti del nostro mondo sono legate come loro sostitute nella comunicazione.

Noi creiamo le nostre soggettività ad hoc, insieme, dando doni l’uno all’altro a un livello sia materiale che linguistico. Il grosso potenziale perché ci sia sviluppo umano attraverso questo processo è intralciato dal patriarcato. Ci rimane ancora sufficiente umanità collettiva per continua-re a capire i discorsi l’uno dell’altro, a trasmetterci informazioni e a funzionare come promotori più o meno efficienti degli ego che abbiamo sviluppato attraverso la definizione, l’auto-definizione e lo scambio. Il fatto che in qualche modo continuiamo a vivere non è una prova della funzionalità dell’ego mascolato, bensì della creatività della pratica del dono e della vita stessa, che ci portano con sé nel loro fluire nonostante il guscio vuoto auto-riflettente dell’ego e nonostante la società auto-similare.

Nel patriarcato, la comunità che formiamo attraverso la comunicazione viene generalmente frantumata in mille pezzi oppure resta un desiderio, un’astrazione che fluttua da qualche parte dietro di noi (un “avrebbe potuto essere”, un ideale, un diverso mondo possibile). Le nostre parole-doni sono state rivolte agli scopi dello scam-bio attraverso la pubblicità e la propaganda, e le nostre motivazioni seguono una lista di priorità che definisce noi e gli altri, ponendoci in alto come uni privilegiati, sostenuti dai possedimenti o dalle relazioni e posizioni al-l’interno di altre gerarchie. Non ci rendiamo neanche conto della presenza della società nelle nostre parole, an-cora meno nella nostra vita, perché la proprietà privata (anche delle nostre coscienze) non c’incoraggia a guardare al di fuori, agli altri come fonte del nostro bene o come persone con dei bisogni che noi possiamo soddisfare. I nostri pensieri sembrano essere “nostri”, perché siamo isolati dagli altri. Invece, come individui siamo la comunità alienata, che pensa.

Se potessimo tornare al dare cure materiali, ricreeremmo la nostra comunità e noi stessi su una base terre-na più solida, curandoci l’un l’altro e curando il pianeta. Invece guardiamo ai valori dell’ego e non ai corpi; gli ego dei ricchi competono contro i corpi dei poveri. Le prove del parassitismo abbondano: ogni luogo destinato ai test nucleari, allo scarico dei rifiuti, alle miniere, ai pozzi petroliferi testimonia la distruzione della madre per gli scopi dei doni ridenominati “profitto” che lo scambio porta con sé.

Il nostro condividere è stato riportato a un passato mitologico (o beatitudine infantile) e ai sottoprodotti dell’attività del nostro ego, ed è diventato l’inconscio collettivo, dal momento che la co-scienza (conoscenza insieme) nella nostra società è basata sulle definizioni e sullo scambio. Forse il personaggio principale della mitologia greca per la perdita della madre non è Persefone, figlia di Demetra, ma Ade, il figlio di Gaia, che è diventato il dio dell’oltretomba.

La conoscenza del cuore

I nostri cuori pompano il sangue che porta l’ossigeno e il nutrimento necessari alle nostre cellule; poi, quando il sangue si esaurisce, ritorna al cuore per essere nutrito. Questo è un archetipo fisiologico che il paradigma dello scambio c’impedisce di seguire. Anche individualmente, il nostro subcosciente ci suggerisce informazioni sepolte, e le idee ci arrivano da un luogo sconosciuto, repentine, doni da una fonte ignota che chiamiamo i nostri Sé, la fantasia, Dio.

Gli umani sono sostanzialmente esseri amanti. Le nostre strutture sociali e la logica dello scambio sono distorsioni patriarcali dell’amore. Il condividere e il dare cure che viviamo nella relazione originaria madre-bambi-no sono spesso l’unica esperienza di amore gratuito che abbiamo, e diventano il nostro modello per tutta la vita. Per questo la prima infanzia è tanto importante nella nostra psicologia. Per il resto della vita, dobbiamo avere a che fare con le varie distorsioni e ostacoli dell’amore. La nostalgia dell’infanzia, come anche dell’utero, è il rimpianto del nostro primo periodo di salute che non è mai più tornato, perché non esiste nessuna struttura sociale o economica che lo permetta. La nostra indipendenza è tanto distorta che sminuiamo la dipendenza, invece di rispettarla. Insistiamo nel voler stare da soli, e invece siamo una massa di individui che si disperano perché vorrebbero essere toccati, nutriti, accarezzati, sostenuti.

La libera circolazione del sangue tra la madre e il bebè nell’utero è il naturale paradigma di una società sa-na. È il modello di una collaborazione che-dà-vita, quando entrambi i cuori pompano lo stesso sangue e il nutrimento viene condiviso. Come il vento che si sposta da una zona di pressione più alta a un’altra zona più bassa, una buona circolazione si muove da chi ha di più a chi ha di meno. Dopo la nascita e dopo aver cominciato a respirare l’aria di cui i suoi polmoni hanno bisogno, cominciando così a interagire con il mondo libero ester-no, il neonato riceve e percepisce, per quanto gli è possibile, l’ambiente abbondante e dona il suo nuovo essere umano alla contemplazione degli osservatori, dà il suo tocco ad altri corpi, rivelando chi è e chi sarà.

La circolazione dell’utero è cominciata a un nuovo livello: è partita dall’interno di un corpo per finire tra due corpi diversi, è diventata tra corpi. I cuori non pompano più lo stesso sangue ma pompano risa, linguaggio, gesti, movimenti verso il bisogno che è riconosciuto, un flusso di beni e di cure. Il neonato riceve creativamente, è una creatura interpersonale, un cuore interpersonale, un soggetto di attenzione, che dà anche attenzione. Il latte scorre al suo stomaco bisognoso attraverso la bocca che riceve in modo attivo. Il latte non gli viene negato. Non ci sono estorsioni, adescamenti, pagamenti. Anche se i segnali del bambino possono farci intuire i suoi bisogni, non si tratta di scambi ma di prodotti gratuiti che scaturiscono naturalmente dal suo intero essere.

Come la sinapsi, per la quale i nervi non trasmettono gli impulsi mediante un contatto diretto, ma attraverso processi lungo spazi diversi, la vita viene trasmessa gratuitamente in molte forme diverse dalla madre al bambino, dal bambino alla madre e ad altri che lo amano. La madre e il bambino sono contenti della gratuità del proprio dare. Nessuno dei due s’imbarazza per la relazione di dipendenza, che esige e permette la circolazione, così come nessuno s’imbarazza per la dipendenza dall’aria, che esige e permette di respirare. In questa relazione possiamo prendere ciò che viene dato gratuitamente e dare gratuitamente, provando gioia e toccandoci dall’esterno, sensazione che passa per e va verso un’altra sensazione, condividendo nello scorrere del tempo all’esterno dell’utero.

La nostra società s’imbarazza per la dipendenza e il bisogno di dare gratuito, ma in realtà farebbe qualsiasi cosa per averli. Quindi noi costruiamo barriere sempre più alte contro di essi, che includono una certa flessibilità, alcuni luoghi per scaricare la pressione che accumuliamo dentro di noi per non poter avere quello di cui abbiamo veramente bisogno. Continuiamo tuttavia a lavorare per avere o prendere per noi stessi più di quanto ci basterebbe, in modo che a noi sembri gratuito (solo a noi, non agli altri). Dal momento che accediamo sola-mente alla nostra esperienza di bebè con la madre, per scoprire poi che il mondo e le sue regole sono diversi, potremmo pensare che nessun altro abbia mai avuto, o abbia bisogno di avere, l’esperienza di cure gratuite.

Invece, la libera circolazione da chi può dare verso chi ha bisogno, la capacità di chiedere liberamente, di ricevere liberamente, di dare liberamente costituiscono il processo basilare, attraverso il quale il flusso della vita circola senza impedimenti. La consapevolezza delle diverse cose che vengono date e ricevute è condivisa così come sono condivisi la percezione o il linguaggio, liberamente in tutte le loro trasformazioni, nel passaggio dei doni da una persona all’altra, dalla natura alla gente e dalla gente alla natura. Questa è la nuova coscienza della natura, un’evoluzione, una nuova vita condivisa della vita.

Dare e ricevere la vita non si limita al concepimento, alla gravidanza o al partorire fisicamente i bambini, ma si compie in ogni atto di soddisfazione del bisogno. Lo scambio, ponendosi tra il dare e il ricevere, tra il dona-tore e il dono, tra il ricevente e il dono, ha ostruito la sinapsi e ci ha confuso. I processi sono distorti, non liberi (unfree). Non diamo più né riceviamo più vita in modo creativo e intelligente, ma basiamo le nostre interazioni sulla mascolazione. Recentemente è stato offerto un premio al primo uomo che rimanga incinto, ma dare e ricevere sono sfruttati e sminuiti ovunque al di fuori dell’utero.

Il nostro sogno comune

Proviamo a considerare che i giudizi sulla realtà e l’ir-realtà (e sull’essere svegli e sognare) dipendano dalla mi-sura in cui la modalità dello scambio e la relazione mascolata del concetto entrano in gioco. Il sogno esplora altre relazioni sincretiche, libera gli esemplari della loro investitura fallica e soddisfa i nostri bisogni di capire median-te il simbolismo, che non è uno-a-uno né uno-a-molti, bensì “determinato da fattori concomitanti”, dove un’im-magine rappresenta un certo numero di questioni, unità o eventi diversi e in apparenza slegati tra loro. Complessi e sincretismi1di vario tipo permettono di fare associazioni che non faremmo mai secondo il nostro sistema di classificazione gerarchica (e sistema di classi sociali).

Nei sogni, le nostre immagini non sono costrette a seguire una linea direttrice, legandosi a esemplari o parole, fornendoci un aiuto concreto socialmente convalidato per gestire la nostra vita nel mondo di veglia “reale”. Possono invece andare a ruota libera, soddisfacendo i nostri bisogni non appena ci arrivano alla mente, o alla memoria. Le immagini sono soggettive, possono seguire una linea di tipo “prima-io”, ma senza l’egemonia dell’e-go mascolato. Nei sogni, i nostri bisogni vengono appagati secondo il principio del piacere, e non implicano una nostra attività volta a soddisfarli. I nostri bisogni reali sono simboleggiati, il nostro intuito è rivolto a essi; vie-ne dato un aiuto reale. Nei sogni, ci trattiamo come se vivessimo in un’economia del dono. La ragione per cui il sogno è soltanto soggettivo e basato su delle illusioni è che il mondo esterno è strutturato sullo scambio. I terapisti autoritari potrebbero non vedere di buon occhio questa modalità “infantile” e “regressiva”, ma perché, poi, non vederla da un altro punto di vista, come utopistica e materna? Il sogno sembra essere la soddisfazione dei nostri bisogni co-muni-cativi su una base individuale. Se solo potessimo soddisfare i nostri bisogni co-muni-ca-tivi collettivamente potremmo vivere tutti i nostri sogni.

Al nostro risveglio, entra in gioco un giudizio sulla realtà e irrompe allo stesso tempo una strategia cognitiva uno-molti; così usiamo l’uno per sostenere l’altro. Ci meravigliamo della stupidità dei nostri sogni, screditiamo il nostro pensiero sincretico e convalidiamo il nostro pensiero uno-molti. Questo ci fa negare o dimenticare e dequalificare i nostri sogni in quanto inferiori al nostro stato di veglia, forse perché anche le nostre strategie per ricordare sono uno-molti. I bambini appartengono sincreticamente alla “categoria” dei sogni, in quanto sciocchi, non-razionali e non-fallici; anche le donne e i desideri vengono spesso relegati al mondo ultraterreno del sogno.

Sopravvalutando e investendo fallicamente il pensiero concettuale nella società intera e proiettandolo sulle strutture delle istituzioni, abbiamo creato collettivamente una realtà sociale diversa dai nostri sogni e inospitale per quel tipo di pensiero. Convalidando la “realtà” ogni volta al nostro risveglio, stiamo screditando il tipo di realtà di cui sono fatti i nostri sogni e le molte parti nonfalliche del nostro mondo di veglia. Perciò può accadere che, ogni volta che ci svegliamo, affermiamo inconsapevolmente il dominio, la misoginia, e l’odio verso i bambini, la natura e la pratica del dono, dicendo a noi stessi: “Quello non era reale; questo è reale”.

Se non altro, i sogni soddisfano un bisogno condiviso da tutti: offrono un’alternativa, così come il comunismo lo ha fatto rispetto al capitalismo (e viceversa), comunicandoci che il mondo “reale” non è l’unico mondo possibile, e che il pensiero concettuale mascolato investito fallicamente non è l’unico tipo di pensiero possibile. Se il sogno funziona secondo i processi non mascolati del dono, esso è un cammino possibile verso un mondo migliore, come il linguaggio e la pratica materna. Il sogno comune dell’umanità è il volto di un mondo futuro. L’intimazione che dice all’umanità di “svegliarsi” è sbagliata. Dobbiamo piuttosto cambiare la re-altà per far sì che i nostri sogni si avverino2.

L’imposizione della re-altà

La lingua ci parla, e ci dice che l’inconscio collettivo ha visto qualcosa che noi abbiamo invece collettivamente ignorato. Io credo che nella lingua ci siano moltissime tracce delle questioni qui discusse: il concetto mascolato, lo scambio, le gerarchie e la pratica del dono. Le parole che stiamo menzioniando in questa pagina sono indizi lungo il cammino regale (royal) verso la scoperta della natura della “real-tà” (in spagnolo, real vuol dire “rega-le/reale”); e quegli indizi ci stanno suggerendo che non possiamo percorrere il cammino regale da soli. Dobbiamo avvicinarci al “soggetto” da una direzione diversa.

Perciò il regime del re (kingship) o il regno delle cose (thingship) – dal latino rex (“re”) o res (“cosa”) – ci sta parlando della base “uno-molti” della re-altà. Il gioco di parole esisteva già in latino. Esso indica gli schemi del dominio auto-similare nella nostra conoscenza del re-ale, al di fuori della grana donante. E anche l’ego in quanto “re” fa parte di ciò che definisce questa re-altà, coincidendo con essa nella struttura, mentre la pratica del do-no ne rimane al di fuori. La re-altà è un terreno comune, che deriva dalla pratica del dono, ma è dominata dal pensiero concettuale capitalista fallicamente-investito.

Basare il pensiero sul concetto sminuisce le differenze, oppure le rende importanti principalmente come segnali di un altro concetto:. “A quale concetto appartieni?” sembra essere la domanda reale. Mettiamo da parte i tuoi bisogni e il tuo essere particolarmente interessante e bella, la scintilla nei tuoi occhi, e ti chiediamo piuttosto se sei abbastanza simile al modello o esemplare per appartenere al concetto di “bella”, al concetto di “amabile”, o di “persona in carriera di successo” o “accademica”.

L’affermazione della re-altà mascolata è forse il riconoscimento di un dato esterno, o l’imposizione di un dono che dobbiamo ricevere? Magari ci sentiamo obbligati, per il principio dello scambio, a “restituire” qualcosa alla re-altà; il ri-conoscimento forse? La re-altà soddisfa i nostri bisogni comuni distorti, ma potrebbe accantonare i nostri bisogni individuali salutari non realistici. A quali conseguenze porta non ricevere il presente? All’abbandono? Alla follia? E a quali porta invece riceverlo? Rinunciamo forse alle verità della nostra prospettiva soggettiva per la visione collettiva mascolata, così da non essere lasciati fuori dal concetto di umano e sano? Se rifiutiamo la re-altà siamo forse ingrati, egoisti, “indulgenti con noi stessi”, come dice uno psichiatra a proposito dei malati mentali? Se diventiamo matti, forse stiamo solo spostando il nostro giudizio sulla realtà da una posizione mediata collettivamente a una posizione soggettiva. Lo facciamo perché siamo tutti dei “feriti ambulanti”.

Una prospettiva collettiva egoista

Il giudizio collettivo sulla realtà è, dopotutto, un’at-tribuzione di valore collettiva che sarà probabilmente più funzionale a ognuno di noi di quanto non sarebbe un’attribuzione di valore puramente individuale. Quando insistiamo sull’empatia, o sul desiderio di un mondo migliore, e gli altri dicono che non siamo “realistici”, stanno ricorrendo a un’attribuzione collettiva di qualità o di valore che assicura, almeno, un certo grado di funzionalità, di adattabilità per l’individuo e per il gruppo; dicono che per il nostro bene (interesse personale), dovremmo adattarci al giudizio collettivo, non cambiare niente né concepire alcunché di diverso.

Perché la visione collettiva sembra essere meno egoista? Esiste una separazione tra l’ego e la collettività, e ciò che non è collettivo sembra essere egoistico. Ma lo stesso ego è un prodotto collettivo, ed esistono molti meccanismi e valori collettivi che gli danno forza; e coincide poi con una sorta di orientamento generalizzato verso l’ego della collettività specifica cui appartiene, come la razza, la classe, la religione, la nazione.

L’ego dipende anche da un’attribuzione collettiva di valore e di realtà alla configurazione individuale interiore, che la convalida per ognuno di noi, ma soprattutto per gli uomini mascolati (di successo). Le strutture autosimilari nella società svolgono questa funzione. L’uno privilegiato, il processo dello scambio e la negazione del dare, le istituzioni basate sulla mascolazione, il denaro e il concetto investito fallicamente, sono tutti meccanismi sociali attraverso i quali viene attribuito valore collettivamente all’ego individuale.

L’ego e l’egoismo possono essere visti come una posizione collettiva, mentre la posizione soggettiva può esse-re di fatto più donante e orientata verso l’altro. Collettivamente possiamo essere molto egoisti; ma collettivamente possiamo anche collocare la linea di divisione in qualche altro punto tra l’individuale e il collettivo, e convalidare un diverso tipo di ego e un diverso tipo di dare, creando un diverso tipo di collettività. Per poter vedere che la divisione è nel punto sbagliato, forse abbiamo bisogno di una prospettiva tridimensionale. Se ci rendessimo conto che ciò che pensiamo di essere è fatto attraverso un dono sociale come il linguaggio come anche attraverso i doni della vita, forse smetteremmo di concepire un’opposizione polare tra l’individuale e il collettivo, l’E-go e l’altro. Questa riformulazione permetterebbe di dividere diversamente il soggettivo dall’oggettivo, l’incon-scio dal conscio, i sogni dalla realtà.

La realtà si afferma e si definisce a partire dall’impo-sizione della modalità mascolata sulla collettività. La comunità distorta è costruita per mettere in atto questa imposizione, e la sua definizione di “reale” fa parte della costruzione. Il giudizio sulla realtà è un meta-messaggio che serve a mantenere lo status quo patriarcale. Così la realtà sembra essere organizzata squallidamente, basata sulla crudeltà della “natura umana”; qualsiasi cosa ci va bene, perché crediamo nella meta-affermazione “la gen-te è così e basta”.

L’individuo dà il valore della realtà ad alcuni episodi della propria esperienza, creando un’attribuzione in di-venire con un costante dono d’impegno e di energia. Ma questa stessa realtà sembra non essere donatrice né includere il paradigma del dono; la pratica del dono nel mondo esterno viene continuamente male interpretata, e la modalità del dono interna non viene vista né riconosciuta in quanto tale. Talvolta, quando non siamo oppressi dalla scarsità e dall’eccessivo lavoro, possiamo vivere l’aspetto donante della natura e degli altri, ma per molta gente, questi momenti di felicità non sono frequenti.

Tutto questo fa sì che la nostra modalità del dare interna non abbia una corrispondenza nella realtà, anche se forse i nostri sforzi di farci dare dagli altri possono considerarsi tentativi sbagliati di fare in modo che la “realtà” rifletta il nostro donatore interno (forse il nostro donatore interno ci appare riflesso come un “altro”). Sembra giusto o armonioso che gli altri diano a noi. Visto che abbiamo convalidato lo scambio e messo in un’altra categoria la madre, sembra giusto o armonioso che gli altri diano a noi.

Se guardiamo con occhi compassionevoli agli sfruttatori, possiamo notare come questi siano convinti della realtà e forse della permanenza della scarsità, e che sentono di doverla sfidare, superare individualmente, prendendo, ossia facendosi dare dagli altri. Il loro parassitismo è in pratica un tentativo, nell’ambito della scarsità creata dal loro stesso sistema, di far sì che la natura nutra almeno loro, se non può nutrire nessun altro; forse èun tentativo di rendere loro madre la realtà. È forse questa la ragione segreta dell’avidità? Lo sfruttatore è forse un bambino che succhia da solo dalla reali-tettà?

Quando credono di meritare più degli altri perché hanno prodotto di più o perché sono più forti o più intelligenti, gli sfruttatori partecipano alla modalità dello scambio e cancellano il dono, che è, paradossalmente, ciò che stavano cercando. Nessuno può trasformare la realtà nella propria madre, a meno che non restauriamo per tutti il paradigma del dono per tutti. La realtà è una costruzione collettiva, e se collettivamente costruiamo la realtà per nutrire/dare cure solo a una persona o a poche persone a spese dei molti, distruggiamo i molti, che sono la collettività. Dobbiamo far sì che il nostro donatore interno corrisponda alla pratica del dono reale all’esterno; questo libererà sia l’individuo sia la collettività. Nel frattempo, restaurare il nostro contatto con la natura può aiutarci a trovare una nicchia ecologica all’esterno per il nostro donatore interno. La natura ha bisogno che ci si prenda cu-ra di lei, di essere restituita a se stessa come libera dona-trice; in questo modo possiamo essere in linea con lei.

Lo scambio, in realtà, significa rimuovere quella che sa-rebbe la soluzione al nostro problema: il dare sia interno che esterno. Lo scambio esige che l'”altro” assuma la motivazione orientata verso l’Ego che viene interpretata da ogni scambiatore. Tutti noi diamo, ma per qualcosa che sta al di là del presente, qualcosa di diverso dalla soddisfazione dei bisogni dell’altro. L’aspetto o natura o realtà donanti dell'”altro” vengono male interpretate e tradotte in “giusta” o “equilibrata” corrispondenza tra dare di più e prendere di più. Così la realtà sembra non dare gratuitamente, ma solo rispondere a uno scambio. E visto che la pratica del dono non è modellata sulla realtà, noi riflettiamo l’equazione distorta. La soluzione è il dare collettivo, l’altruismo collettivo; il denaro, come prodotto collettivo, può essere usato per dare inizio a questo processo.

I sogni si avverano all’interno e all’esterno

Forse, se il sognare è nella modalità del dono, Spider Woman (la Donna-ragno degli indigeni) sogna veramente il mondo, come dice Paula Gunn Allen. Ma la re-altà mascolata è un incubo collettivo, un dono collettivo per mettere fine a tutti i doni, che taglia fuori la pratica del dono assimilandola allo scambio; moltissime persone danno inconsapevolmente la loro energia alla realtà mascolata. Dobbiamo sognare collettivamente qualcos’al-tro, e dare la nostra energia delle ore di veglia per creare una realtà diversa, facendo avverare i nostri sogni di un mondo migliore invece che i nostri incubi. Se ci fosse maggiormente presente la pratica del dono nella realtà, verrebbero dati più poteri al nostro donatore interno, alla nostra creatività e al nostro amore.

La creazione artistica è in la realtà, pratica del dono ed è un ponte verso un mondo migliore perché il mezzo o il veicolo del dono è a sua volta un dono gratuito, che soddisfa e crea i bisogni estetici. Ad esempio, il canto è gratuito per l’ascoltatore, e il veicolo, la voce, soddisfa un bisogno, un nostro potenziale per godere di armonie, suoni, ritmi, belli e gradevoli; le parole soddisfano invece i bisogni comunicativi. Nel caso dell’arte visiva avviene una co-sa simile: i colori, le forme, e le composizioni possono produrre sensazioni piacevoli, qualunque sia il soggetto o il tema centrale dell’opera. Anche se molti tipi di arte possono essere comprati e venduti, hanno tutti un aspetto in comune: la soddisfazione gratuita dei bisogni, che è, essenzialmente, il loro canale co-municativo. Non c’è scam-bio tra l’orecchio e la musica, tra l’occhio e il dipinto, anche se l’accesso a queste esperienze è spesso costoso. L’o-pera d’arte in sé dà. Il dono creativo dell’artista è la capacità di creare qualcosa che dia (abbiamo detto prima, in contrasto con l’antropologo Lévi-Strauss, che le donne non dovrebbero essere interpretate come merci o come messaggi scambiati tra diversi gruppi di parentela, ma come fonti di doni, doni-che-danno). Diverse attività basate sullo scambio diventano parassitiche rispetto all’arte, come anche rispetto ad altre fonti della pratica del dono.

Anche se l’arte ristabilisce in una certa misura la pratica del dono nel mondo esterno, non è sufficiente per avvalorare il modello cancellato. Per il momento, la pratica del dono sta nei sogni e nel subconscio, e non viene riconosciuta in quanto tale nell’arte, nei racconti, nei miti. I racconti possono avviare dolcemente i bambini allo scam-bio attraverso la comunicazione, soddisfacendo questo loro bisogno. Mostrano loro la transitività di una cosa che conduce a un’altra, la soddisfazione di un bisogno che permette la soddisfazione di un altro bisogno, un’azione che ha come risultato qualcos’altro. L’azione può essere interpretata come un dare; e soddisfare un bisogno, quindi, ne crea un altro: dopo aver mangiato, un bambino ha bisogno di dormire, o di uscire a giocare; la madre ha bisogno di riordinare, di riposare, di tornare al lavoro.

La struttura se-allora, tuttavia, s’impadronisce del dono con una conseguenza: se metti la mano sul fuoco, ti brucerà. Quando s’introduce una struttura di ricompensa sociale e punizione, la transitività del dono si trasforma in consequenzialità logica dello scambio. Se/allo-ra diventa “fai questo, prendi quest’altro”; e così può sembrare che quando il bambino fa qualcosa, ciò che la realtà gli “restituisce” è ciò che lui “merita”. Cenerentola meritava di andare al ballo e di sposare il principe perché lavorava tantissimo? Cappuccetto Rosso meritava di essere mangiata dal lupo per aver disubbidito alla madre? Questi racconti sono esplorazioni nello scambio tra la “realtà” e i protagonisti della storia, per i bambini che cominciano appena a considerare il loro comportamento secondo la modalità dello scambio.

Qual è il prezzo che paghiamo per non aver dato, quali le ricompense che otteniamo per aver dato? Questi scambi sono tutti retti da un equilibrio, almeno nelle fa-vole. Non appena i bambini cominciano a imparare come scambiare, la loro moralità cor-risponde. Fare obbedire i figli, istituendo un sistema di ricompensa e punizione, li allontana dalla modalità del dono a cui stavano partecipando con le loro madri e li prepara alla modalità dello scambio, dilagante nella cosiddetta “realtà”. I racconti soddisfano il bisogno dei bambini di essere introdotti mediante una comunicazione dolce in un mondo reso alieno dallo scambio.

È vero: abbiamo bisogno, come i bambini, che ci venga insegnato come adattarci alla realtà; ma questo perché la realtà è distorta. Il bisogno di adattarsi viene imposto da un ambiente alterato artificialmente e pervasivamente dal paradigma dello scambio. La socializzazione impone un’evoluzione verso la funzionalità nel sistema, e un adattamento ai ruoli dell’avere o non-avere a tutti i diversi livelli. Se il nostro funzionamento seguisse il paradigma rivolto allo sviluppo umano e planetario, non avremmo bisogno che qualcuno c’insegnasse il dare e ricevere dall’esterno, ma lo apprenderemmo dalle nostre esperienze, così come impariamo a dare un senso al-le nostre percezioni, a gestire le attività del nostro corpo e, almeno in gran parte, a parlare.

Insegnare ai bambini come obbedire impone loro lo schema di dominio-sottomissione, che racchiude i meccanismi di ricompensa e punizione dello scambio, con avvertimenti del tipo: “Se metti la mano sul fuoco, ti brucerai”. Questa frase è puramente informativa, ma viene usata a sostegno della dittatura parentale, come: “Se non dici ‘sì mamma’ non puoi uscire a giocare”. Questi dettami funzionano secondo la modalità dello scambio, dando un valore alle nostre azioni in termini di conseguenze: “Hai disobbedito: sei in punizione per tre giorni”. L’autoritarismo del genitore è, spesso, non sol-tanto una riproduzione della propria infanzia e della relazione con i genitori, ma un’attitudine di oppressione contro il proprio “figlio interno” donante e ricevente. Le nostre scuole, con la loro pratica di classificazione, riducono il processo di ricompensa e punizione a totali di “conoscenza” acquisita valutabili quantitativamente.

Gli irochesi e l’uomo bianco

Quando le donne sostengono le donne, o le nutrici nutrono le nutrici, c’è una transitività della pratica del dono, così che il bene viene trasmesso e ritrasmesso e il rice-vente riceve dai molti e dà a essi. Se questo diventasse un principio, la gente ne diventerebbe cosciente e la realtà sarebbe costituita da più azioni determinate in questo modo. Se il paradigma del dono venisse convalidato e praticato consapevolmente, tuttavia, non avremmo bisogno di concepirlo come un principio; potremmo essere più flessibili, sperimentare e agire secondo il caso. Forse, se lo trovassimo utile, in alcuni casi potremmo persino praticare tranquillamente lo scambio, perché il contesto stesso sarebbe comunque portatore della pratica del do-no. Le tribù di americani nativi in cui le donne hanno il ruolo dominante, come gli irochesi, hanno creato una realtà di pratica del dono alternativa di questo tipo. Il contesto implicava i valori del dono seppure in una certa misura venisse praticato anche lo scambio – almeno lo scambio simbolico –, e talvolta si combattessero guerre.

I valori dell’economia del dono minacciano chi pratica l’economia dello scambio, e io credo che questa sia una delle ragioni della ferocia dell’uomo bianco contro le popolazioni native. Anche l’uomo bianco aveva una madre; imparò a ucciderla nel massacro delle streghe. Non poté farlo però senza uccidere anche se stesso, la propria madre interna. Il genere non esiste; gli umani si formano tutti secondo la pratica del dono. Uccidendo e riducendo in schiavitù la propria madre europea, l’uomo bianco si è privato del modello del proprio potenziale umano. Lasciando la terra madre e penetrando nelle Americhe, l’Uomo Bianco ha portato la propria umanità a compiere il falso programma di conquista mascolato. Al suo arrivo, ha trovato delle società fondate sulla pratica materna, le ha sfruttate e ha perpetrato un genocidio. Ciò che lui considerava civilizzato erano l’Ego e lo scambio, con la loro logica vuota derivata dalla definizione.

Tuttavia l’Uomo Bianco ha un cuore. Ha vissuto nel-l’utero della madre, è stato da essa nutrito, ha ricevuto i suoi doni e le ha dato i propri. Ciò che non ha capito è che tutti gli uomini e le donne condividono lo stesso sogno, lo stesso modo di sognare e lo stesso modo di parlare. Noi abbiamo già un linguaggio comune. Il linguaggio non è solo co-municazione di doni materiali, anche se quest’aspetto è importante; è anche comunicazione di doni verbali. Ciò che conta non sono i suoni-dono specifici, ma il fatto che noi li diamo l’uno all’altro. La torre di Babele non è altro che il simbolo fallico della mascolazione, che non ci lascia vedere che tutti i nostri linguaggi e le nostre vite provengono dalla Madre e dalla Pratica Materna. Se abbandonassimo la mascolazione e facessimo ritorno alla madre e al figlio che sono dentro ognuno di noi, potremmo restaurare il sogno.

Dalla re-altà alla dea Rea-ltà

Il dare e lo scambio sono profondamente intrecciati tra loro al livello della re-altà economica, e questo pone diversi ostacoli sul cammino di un’efficace attività di cambiamento sociale orientata alla pratica del dono. Inoltre, l’obiettivo del cambiamento sociale spesso s’identifica erroneamente con l’integrazione di ognuno di noi all’econo-mia dello scambio. È un falso obiettivo perché ignora il fatto che, perché il mercato funzioni, da qualche parte devono arrivare i doni gratuiti diretti a esso.

Molti gruppi sono esclusi dal sistema di mercato capitalistico, e i loro prodotti non hanno accesso al mercato o non possono competere al suo interno. Il lavoro artigianale delle popolazioni indigene, ad esempio, seppure della migliore qualità, generalmente non ha accesso al mercato, tranne che attraverso intermediari sfruttatori.

Di recente, gente di buone intenzioni ha avviato progetti di aiuto agli artigiani per inserire i loro prodotti sul mercato, attraverso finanziamenti a fondazioni o ad altre entità. Il problema è che le loro opere devono essere equivalenti agli altri pezzi dominanti sul mercato: ??? (dev’essere uno “scambio equo”).

La contraddizione è che l’obiettivo è individuato nel-l’assimilazione di questi gruppi alla stessa economia che li ha esclusi e sfruttati, e che continua a escludere e a sfruttarne degli altri, appropriandosi di grandi quantità di lavoro-dono nascosto. Solo pochi di essi possono diventare “uguali” ai pochi dominanti sul mercato che so-no “uguali” tra loro, e la cui “uguaglianza” è possibile grazie ai doni nascosti di altri. Il dono dei finanziamenti a questi progetti prende il posto del lavoro-dono nascosto per un certo periodo, ma generalmente l'”autosuffi-cienza” all’interno dell’economia capitalista è un’illusio-ne, perché il capitalismo ha bisogno dei doni nascosti per poter funzionare. L'”autosufficienza” spesso non è altro che dipendenza dal mercato capitalista, ed è così per le donne che accedono al mercato del lavoro per es-sere “autosufficienti”.

La produzione di ornamenti di perline degli americani nativi sul mercato di Hong Kong è un esempio cal-zante. Lo sfruttamento internazionale produce a costi minori, con più competitività, e prodotti “più equi” che la giustizia sociale o i progetti di autosufficienza. Grazie a esso, nelle relazioni di sfruttamento tra le nazioni di-venta disponibile il fattore del quoziente-dono (che produce la differenza tra i livelli di vita), insieme al “dono” del lavoro dei lavoratori sfruttato nelle imprese individuali straniere. L’illusione è che i gruppi “esterni” al flusso dominante possano avere successo se soltanto i loro prodotti fossero abbastanza buoni per essere competitivi. Si ignora che, perché questi prodotti siano “abbastanza buoni”, uguali o anche solo appartenenti allo stesso “settore”, è necessario aggiungere una quantità relativamente grande di doni nascosti.

Forse producendo un nuovo prodotto o monopolizzando il mercato, chi sta al di fuori dell’economia capitalista può accedervi e avere successo al suo interno, dando giovamento alla propria comunità. Ma per questo è necessario conoscere il mercato; e ciò è possibile solo con l’educazione e l’esperienza nel mercato stesso, che porta, di solito, a cercare di avere successo per il proprio profitto, non per la comunità, secondo i valori capitalistici di “ognuno per sé”. Anche il tentativo di accedere al mercato, di produrre prodotti uguali o competitivi, convalida il mercato stesso e lo “scambio equo” come il sistema migliore (o addirittura l’unico sistema) per avere abbondanza. Ogni alternativa viene considerata poco pratica o inesistente. L’economia del dono, nascosta e integrata nell’economia dello scambio come lavoro sfruttato, viene sacrificata; non le viene dato nessun va-lore; resta invisibile o viene screditata e disprezzata.

A un livello psicologico individuale, il subconscio non è visibile, ma serve come fonte di energia per le nostre menti coscienti. Molte motivazioni e associazioni inconsce non arrivano mai in superficie e vengono screditate. Nello stesso modo, la gente esterna al mercato sostiene chi sta all’interno; e analogamente, le donne sostengono gli uomini nelle loro relazioni “eque” con altri uomini e nella loro competizione volta al dominio, senza riconoscere l’impegno che esse e altre donne hanno intrapreso per nutrirli/dare loro cure. Noi dobbiamo smettere perciò di dare valore al tipo di coscienza basata sullo scambio e sulla mutua esclusione, all’uguaglianza sul mercato, al rendere “competitivi” i nostri prodotti, o noi stesse o i nostri figli, e sperimentare delle alternative che siano totalmente diverse.

Quand’anche sembri difficile creare progetti di pratica del dono nella realtà presente, io credo ci siano in realtà molti modi possibili, che non vengono però riconosciuti come tali. Molte donne che conosco personal-mente forniscono dei servizi gratuiti: aiuti domestici, formazione e sostegno alle altre donne, spesso credendo di essere “matte” perché non vogliono essere pagate. Si stanno facendo diversi esperimenti di consorzi fondiari costituiti da donne, movimenti per l’autosufficienza e per un vivere più leggero sulla terra.

I movimenti contro la violenza domestica e sessuale hanno a che vedere con la soddisfazione gratuita dei bisogni, così come i movimenti contro la dipendenza dalle droghe. Chi è in questi movimenti, come anche chi è attivo contro il razzismo e per la liberazione dei popoli, contro la distruzione del pianeta, contro i giochi puer-ili che si fanno con i rifiuti radioattivi e le bombe chimiche a orologeria, contro la guerra, contro il militarismo e la spesa militare, tutte queste persone stanno dedicando moltissimo tempo ed energia per soddisfare importanti bisogni generali di cambiamento sociale.

Gran parte del lavoro volontario viene svolto dalle donne, ma molto anche dagli uomini. Chi è coinvolto in tali attività miste non si rende conto del fatto che, nello svolgere questo lavoro non monetizzato di soddisfazione dei bisogni, sia gli uomini sia le donne stanno seguendo il paradigma del dono basato sulla pratica materna. Perciò la leadership delle donne che credono nei valori del dare non viene considerata uno standard; e le donne, però, appoggiano spesso gli uomini che seguono il programma mascolato anche nelle attività che hanno come obiettivo il cambiamento sociale. In molti casi, di fatto, il programma mascolato non viene neanche riconosciuto come problematico.

La pratica del dono ha spesso acquisito una brutta fama, e la gente è stata dissuasa dal seguirla, perché le organizzazioni di beneficenza patriarcali hanno imposto i propri doni sui riceventi, considerandoli passivi e inferiori, senza curarsi della valutazione dei loro bisogni. Anche in questo caso, le donne e gli uomini hanno abbracciato il paternalismo a detrimento di ogni persona coinvolta, offuscando il legame tra le donne e il paradigma del dono senza riconoscere la differenza tra la pratica del dono e lo scambio. Queste organizzazioni, infatti, hanno spesso usato la pratica del dono come un pretesto per dominare e accumulare profitto in vari modi.

Ho ripensato a un vecchio detto: – “È meglio non dare pesce ai poveri ma insegnare loro a pescare” con un risvolto che punta al cambiamento sociale. Dobbiamo chiederci prima di tutto come è stata creata la scarsità. Perché la gente non ha avuto accesso al lago per imparare a pescare? Il lago era forse proprietà privata oera controllato da una corporazione o dal governo? È forse mai possibile che un gruppo di persone affamate potesse vivere vicino a un lago, avendovi accesso, senza imparare a pescare?

Dobbiamo riuscire a modificare le cause della povertà, e una delle cause principali è il sistema basato sul-lo scambio. Creare progetti per far accedere la gente al mercato non modificherà le cause. Dobbiamo creare un cambiamento nella coscienza, che ci permetta d’indivi-duare le cause sistemiche e di puntare a cambiarle.

È importante creare delle alternative al capitalismo patriarcale, degli esperimenti basati sul tipo di organizzazione delle diverse economie dei cosiddetti “popoli primitivi”, esterni al sistema del mercato. Io propongo di finanziare o altrimenti promuovere dei progetti alternativi, come dei doni locali non monetizzati, o dei circoli di condivisione, o dei progetti per restituire le terre fertili a chi ne è stato espropriato, perché possano viverci e coltivarle (molte donne hanno già cominciato a comprare e a condividere le terre con altre donne). Questi progetti devono essere resi possibili mediante il dare doni monetari, il finanziamento, che è in sé un sistema economico diver-so. Anche se il finanziare può sembrare parassitico nei confronti del capitalismo, sarebbe quindi un parassita sul parassita; avrebbe perciò una meta-visione (parasight) e potrebbe mettere in pratica un sistema diverso.

Finanziare in questo modo le economie del dono, anche se in modo sperimentale, ha una conferma sul metalivello. È donare per donare. Affermando l’esistenza di alternative, possiamo affermare il valore della differenza e disinvestire dall’uguaglianza capitalistica. Dall’interno delle classi che sono privilegiate per il dominio del segno dell’uguaglianza (=), le donne possono almeno ascoltare l’appello echeggiante del primo comandamento della Ragione Altruistica: “Proviamo qualcosa di di-verso. Questo non funziona!”.

Mater-Madre

Materia(matter)-spirito, madre(mater)-anima sono probabilmente delle false opposizioni. L’illusione è che la mater non conti perché sta attribuendo importanza all’al-tro e non sta prendendo credito per sé, ma questo in realtà vuol dire che essa conta di più. Dobbiamo invece fare in modo che la mater conti. La pressione atmosferica sposta l’aria, e nello sviluppare il bisogno di aria, espandendo i nostri polmoni, essa viene inspirata, soddisfa il bisogno. Le cose della natura soddisfano i bisogni: dalla clorofilla nella foglia che fornisce zuccheri alla radice, al plancton sulla superficie del mare, dove le balene si nutrono, ciondolano e si riposano; dalle antiche rocce con le quali costruiamo le nostre case, ai torni dei vasai.

Questo perché i bisogni, anch’essi parte della natura, sono creativi. Le creature, compresi gli umani, si adattano a ciò che viene loro dato, oltre a modificarlo. La ma-ter(ia) è già ragione: parti di essa si occupano l’una del-l’altra, i bisogni sorgono e vengono soddisfatti. Ma la mente umana si è auto-interpretata secondo il paradigma dello scambio e si è perciò staccata dalla propria ma-trice, riflettendosi su se stessa. Nel lasciare che i donatori – le donne, la madre e la figlia che è in noi, i molti – si prendano cura di lei, la mente non si sta occupando di loro. Impegnata nel proprio orientamento verso l’Ego, essa cerca filosoficamente d’inseguire ciò che sta facendo da sola.

Forse la mente (e il cervello) possono essere meglio compresi se si considerano dal punto di vista del paradigma del dono. Se riportiamo la mater alla materia, possiamo capire quanto essa conti (how she minds), quanto la pratica materna sia ragione (how mind is mothering), e perché adesso dobbiamo soddisfare il nostro bisogno, dell’umanità e della terra, di riconoscere la mater come un dato. Lo spirito difficilmente conta (matters) nel riflesso; viene soffiato sullo specchio, una cosa che appartiene a un concetto diverso. Ma in realtà, la madre e il vento seguono principi simili: vanno dove c’è una mancanza, un vuoto, il bisogno di loro; e portano con sé le parole che abbiamo bisogno di ascoltare per riformare le nostre comunità.

La Madre Nutrice

Vado a fare una passeggiata in campagna: ci sono così tante creature, insetti, piante, fiori di campo, così specifici e diversi l’uno dall’altro per il luogo e il modo in cui crescono. In ogni metro quadrato di terra c’è una varietà, una danza lenta, selvatica e magnificente di vita animale e vegetale. Ogni tipo è in rapporto a una parola quale suo nome, ma in rea-ltà nessuno è assolutamente uguale a un altro. Adesso la combinazione di concetto, definizione e scambio ha prodotto un ambiente in cui le cose sono in realtà identiche tra loro. Non raccogliamo più le bacche dai cespugli; prendiamo identiche confezioni di frutta al supermercato.

La dea non è stata completamente distrutta: preparare, cuocere e mangiare il cibo che cuciniamo; sentire, stare in movimento, provare una gioia profonda in diversi modi, dal sesso alla poesia, alla contemplazione di una tempesta, sono ancora maniere di abbracciare i suoi doni. Ma costringere la natura a dare ha a che fare con la violenza maschile: scavare, trivellare, bombardare. Se obblighiamo qualcuno a dare, saremo sicuri che lo farà, e questa sicurezza dà forse il conforto necessario all’Ego artificiale dello scambio.

Dovremmo considerare la Rea-ltà come Madre Natura, Madre Nutrice. Si sta facendo con lei la stessa cosa che è stata fatta con noi: esaurirla così da costringerla a dare, per dimostrare che gli uomini lo fanno nel modo giusto o nell’unico modo possibile, che hanno il controllo della Rea-ltà e della re-altà. E questo avviene per non dare nutrimento/cure alla natura né attribuire valore al dare. Cancellare la madre fa apparire come processi basilari della vita, la meccanica causa-effetto, se-allora, i metodi oggettivi dello scambio. Si nasconde così un’intera gamma di intenzionalità nutrici, dalle meno “umane”, come il vento o la possibilità che un’ameba trovi per caso un boccone prelibato, alle più “umane”, una rivoluzione femminista o una ninna-nanna. In principio, ontogeneticamente e filogeneticamente, le madri nutrono i loro bambini.

L’Emozione

Nell’attività di mantenimento del mondo si continua ad attribuire valore materialmente seppure “servilmente”. Nonostante la monetizzazione e lo scambio, i bisogni continuano a essere riconosciuti dalle donne (e da alcuni uomini) sia emozionalmente sia intellettualmente. Io credo, in effetti, che alla base della vita emotiva umana ci sia la connessione umana tra i bisogni degli altri e i nostri. Gli Ego mascolati, immersi nello scambio, sono notoriamente (e infelicemente) slegati dai bisogni, “insensibili”. L’attenzione ai bisogni sembra essere irrazionale, perché ciò che consideriamo razionale si basa sullo scambio. Dal momento in cui abbiamo permesso che lo scambio pervadesse il nostro mondo, escludendo il dare, abbiamo sdegnato tutti i nostri valori, rendendoli più astratti di come sarebbero stati se si fossero basati sul dare. Così il valore stesso è stato lasciato all’astrazione.

Le emozioni continuano a volteggiare intorno ai bisogni insoddisfatti, attirando l’attenzione su di essi, dan-do loro valore perché possano essere soddisfatti, ma queste emozioni vengono spesso ignorate, screditate, dequalificate o altrimenti soppiantate dalla logica dell’e-goismo. Dare valore al ragionamento astratto allontana la nostra attenzione dai bisogni. Anche se talvolta il ragionamento astratto potrebbe essere utile per capire come soddisfare dei bisogni complessi, esso può divenire un fine in sé e una scusa per trascurare i bisogni e le emozioni che ci conducono a essi, per sempre.

Il patriarcato ha re(x)ificato la re-altà. Ha esteso la propria rete di immagini auto-similari – i concetti investiti fallicamente –, appropriandosi dei doni della collettività, come una rete di solidarietà maschile di uomini d’affari alla conquista di nuovi mercati. Soffocare questi concetti nella “realtà” porta a sminuire il suo aspetto di nutrimento/cure, rende invisibili i bisogni, scredita le emozioni che rispondono ai bisogni, e la realtà diventa meccanica e oggettivata. Ciò che viene dato per scontato, si ritiene importante solo perché è stato organizzato in concetti, reso relativo agli uni privilegiati. Ci troviamo tuttavia ancora nell’ambito del ricevere, anche se non lo riconosciamo. La realtà è sempre nutrice/curante, anche se i concetti astratti lo nascondono e c’ingannano. La rete dei concetti, il sistema auto-similare, sono un intreccio invisibile, condiviso astrattamente, che allontana la nostra attenzione dai doni reali della dea Rea e la convo.

Capitolo ventesimo: Dare e amore

Capitolo ventesimo: Dare e amore

Credo che l’espressione “conoscenza carnale” sia una buona scelta. Gran parte della nostra esperienza interpersonale di amore e sesso ha a che vedere con il conoscere e percepire l’altro fisicamente e spiritualmente, secondo la “grana” donante e ricevente. Questa conoscenza richiede o favorisce un orientamento verso l’altro da cui in parte deriva l’esperienza di “perdersi”, ben nota alla letteratura amorosa. In una società fatta a immagine e somiglianza del paradigma dello scambio, molti di noi hanno imparato a non essere orientati verso l’altro, evitando così che l’amore possa essere un’esperienza travolgente, un viaggio nell’economia del dono, un concentrarsi sull’altro, una possibilità di ripercepire il mondo, di ricreare una società umana a due.

Il modo in cui formiamo i nostri legami e le nostre relazioni reciproche riguarda le nuove percezioni di doni. Come Adamo che denominava le creature dell’Eden e ne parlava con Eva, noi diventiamo coscienti delle particolarità e universalità l’uno dell’altro, e diventiamo coscienti della consapevolezza reciproca che abbiamo di esse. L’amore altera la nostra attitudine individuale ri-volta all’orientamento verso l’altro, almeno per il momento. Cominciamo ad avere bisogno l’uno dell’altro e a voler dare l’uno all’altro. Cominciamo anche ad avere bisogno del bisogno che l’altro ha di noi, del nostro stesso darci, legandoci al desiderio dell’altro. Forse è proprio l’aspetto di orientamento verso l’altro dell’amore che ci porta a cantarlo, a parlarne, a desiderarlo tanto nella nostra società. “La giusta via è l’amore”, dicono i predicatori e gli attivisti pacifisti; gli unici a non dirlo sono gli economisti (e i terapisti preoccupati della co-di-pendenza).

Una parte della nostra mente vera ci sta dicendo cosa fare e usa le nostre relazioni per dircelo. Suppongo che per questa parte sia difficile generalizzare, non sapendo che il suo stesso contesto è in realtà economico. Essa ci dice: “Dai, cambia l’Ego, nutri l’altro con abbondanza”. Freud e scrittrici femministe come Nancy Friday, scoprendo che noi cerchiamo in realtà la relazione con le nostre madri negli uomini che sposiamo, hanno acceso un barlume di economia del dono che viene general-mente stroncato sul nascere.

I rapporti d’amore infatti, causando “orientamento verso l’altro”, possono portare un uomo a praticare le cure più di quanto non abbia mai fatto, comportandosi come una madre farebbe con il proprio figlio (“Ti voglio bene, baby!”), soprattutto se la madre fosse abituata a vivere nell’economia dello scambio e avesse assunto i suoi valori. Il sentimento di beatitudine che viene dal darsi cure reciproche (facendo a turno – non scambiando – perché ognuno è orientato verso l’altro) è un’espe-rienza di economia del dono tra adulti, messa in risalto dal fatto che sono una società a due, e che la pratica del dono non è il sistema economico scelto dal mondo in cui vivono. Invece, la loro relazione può sembrare, ed è effettivamente, un angolino di beatitudine in un mondo diventato matto.

Come altri casi di economia del dono, questa società a due viene presto alterata nella sua natura e possibilità di sopravvivenza dal carattere estraneo dell’ambiente circostante. Come un fiore tropicale in un clima freddo, esso ha bisogno di circostanze particolari, di molto lavoro, premure, protezione, che alla fine fanno defluire il sentimento di calore e accoglienza così che la fragile pianta capisce (a ragione) di trovarsi in un ambiente sbagliato. Ma ancora una volta, questo non è un “difetto” dell’amore, bensì della penuria di amore e della penuria di beni create dalla mascolazione e dallo scambio in tutto il mondo. Più atti crudeli avvengono nel mondo, più ostile sarà l’ambiente per una relazione di nutrimen-to/cure tra due adulti.

Per riuscire a sopravvivere in una situazione di scarsità, gli amanti si adattano. Si dividono tradizionalmente il lavoro eterosessualmente: l’uno entra pienamente nel paradigma dello scambio, mentre l’altra continua a dare cure, seppure lavorando anch’essa nell’economia dello scambio. I loro Ego si alterano di conseguenza. Noi donne diamo i nostri doni migliori: diamo vita ai nostri figli, poi pratichiamo il paradigma del dono con loro perché ce lo impongono. Siamo costrette, per la loro reale dipendenza, ad adattarci alla modalità orientata verso l’altro. I compagni maschi accedono alla gerarchia della competizione per gli scarsi beni ma generalmente non hanno la salvezza psicoeconomica di dover dare cure ai figli. La partecipazione all’economia dello scambio diventa l’unica tecnica per la sopravvivenza e le donne, perciò, cominciano a rafforzare psicologicamente nei loro partner (e talvolta in loro stesse) le caratteristiche che li aiuteranno ad avere successo dove sono. Le donne rimandano il loro amore, mettono da parte il loro nutrirsi/dare cure reciproco, a un momento più opportuno. Alla fine, arrivano a pensare che l’esperienza dell’amore sia una co-sa infantile, un’illusione. L’amore ricorda loro, a ragione, l’infanzia, perché la relazione tra la madre e il figlio è l’unica esperienza importante di economia del dono che quasi tutti noi conosciamo.

Per il sistema della doppia responsabilità, molte donne svolgono sia il ruolo del dono sia quello dello scam-bio. Vengono pagate meno degli uomini per un lavoro paragonabile, non solo per dimostrare la loro inferiorità e l’inferiorità del paradigma del dono, ma anche perché continuino ad aver bisogno del denaro cui gli uomini provvedono loro con i frutti della loro attività economica di scambio. Questo sostegno sembra diventare una sorta di pagamento per i servizi che la donna svolge. In altre parole, il dare cure gratuito della donna, sia al compagno sia ai figli, viene “compensato” con il denaro che le dà il marito. Così la pratica di cure gratuita viene come racchiuso all’interno del paradigma dello scambio, che se ne impadronisce e lo riformula come scambio. Generalmente, però, il denaro che la donna riceve è appena sufficiente per comprare i mezzi di nutrimento/cu-re alla famiglia. In un ambito di scarsità, il lavoro gratuito delle donne sembra (e talvolta è) una specie di schiavitù. L’opposto della schiavitù potrebbe sembrare il lavoro retribuito, mentre invece dovrebbe essere la liberazione al dare gratuito in un ambito di abbondanza.

Dare nell’abbondanza è una scelta possibile per la gente ricca, dove il marito lavora nell’economia dello scambio per produrre denaro in abbondanza, e la moglie (che non lavora in quella economia) ha tempo di praticare il nutrire/dare cure su larga scala, svolgendo un lavoro volontario o opere di carità, cosa che anche il marito può fare. Sfortunatamente, la beneficenza di questo tipo mantiene lo status quo, alleviando i problemi senza modificarne le cause. Inoltre, il volontariato che dipende dal capitalismo patriarcale fa apparire la modalità dello scambio necessaria a sostenere la pratica del dono.

La beneficenza convalida la modalità dello scambio considerandola un suo requisito indispensabile. Anche gli esempi riusciti di marketing solidale hanno questo difetto. Dobbiamo piuttosto modificare l’intero contesto spostandoci al paradigma del dono per tutti, e dobbiamo usare i nostri doni per fare che ciò sia possibile.

Pur essendo psicologicamente positivo per qualcuno dare cure agli altri a partire da un ambito di abbondanza, nell’attuale situazione di penuria generalizzata la pratica del dono può apparire inusuale o addirittura essere vista come un atto pio. Questo può provocare fissazioni egoiste di vario tipo da parte dei donatori, e in una mancanza di rispetto nei confronti dei destinatari. Considerare il paradigma dello scambio e la sua logica alla radice del problema spersonalizza le azioni dei donatori e dei riceventi. La soddisfazione del bisogno non dovrebbe riprodurre lo scenario dell’abbiente e non-abbiente, migliore e peggiore; invece fa parte di una modalità più attuabile e umana, è un bene per la personalità e il benessere materiale del donatore e del ricevente, liberi dal-l’umiliazione e dalla fissazione dell’Ego sul difendere l’e-conomia dello scambio. È la cosa più logica e co-muni-taria da farsi.

I tipi d’impiego disponibili nella nostra società non permettono lo sviluppo della modalità e della mentalità del dare gratuito. L’intera società convalida la produzione di beni e servizi per lo scambio, e la valutazione degli esseri umani secondo lo standard monetario. Nell’ambi-to delle nostre relazioni personali, della nostra esperienza immediata, possiamo sperimentare le correnti sociali che scorrono attraverso di noi. Possiamo “dare” reciprocamente moltissimo di noi stessi, perché non lo stiamo facendo socialmente su un piano materiale. Chi possiede ricchezza materiale deve sentire almeno inconsciamente la spinta dei bisogni degli altri. Ogni giorno, gen-te che muore di fame ci osserva da dietro gli schermi televisivi; fuori dalle nostre case vediamo i senzatetto, ubriachi e infreddoliti.

Esiste una prospettiva vera, seppure cinica, sul dare, che dice: “Se darò tutto ciò che possiedo a un altro, questo sarà egoista tanto quanto lo sono stata io”. Se si continua a convalidare il paradigma dello scambio, gli “abbienti” continueranno a opprimere i “non abbienti”. Se una persona leggermente più generosa dà il proprio denaro a un’altra persona, è difatti possibile che que-st’ultima diventi più egoista. Il segreto è nel dare per cambiare il sistema e convalidare il paradigma del dono. Qualsiasi comportamento volto alla soddisfazione del bisogno, se attuato con consapevolezza del paradigma cui appartiene, contribuisce a questa convalida.

Il dare sessuale

Io penso che stiamo cercando di praticare il dare co-muni-cativo nei nostri rapporti d’amore, magari anche attraverso la promiscuità. Noi ci diamo sessualmente a chi sembra avere bisogno di noi, perché siamo spinti dal nostro subcosciente a dare mentre stiamo tuttavia vivendo nella scarsità materiale o siamo stati convinti che dare materialmente non sia una cosa da fare. Darci sessualmente ci permette di provare l’emozione di dare e ricevere direttamente “sulla nostra pelle”; ci permette di fare qualcosa per qualcun altro, soddisfacendo un bisogno senza trasferire concretamente i beni dall’uno all’altro. In effetti può essere molto imbarazzante dare e ricevere beni materiali mentre il dare e ricevere sessuale è convalidato come un desiderio “normale”. Il sesso promiscuo ci permette di essere orientati verso l’altro rispetto a un certo numero di persone, dando loro su quel piano, mentre la società non ci permette di dare loro sul piano del bisogno materiale.

Nelle nostre relazioni interpersonali viviamo i problemi della società. Ad esempio, le donne danno troppo ai figli o continuano a dare ai mariti che le maltrattano. Io credo che inconsciamente sappiamo che il dare è la giusta via. Ciò che non vediamo è che spesso stiamo dando nel posto sbagliato e sul livello sbagliato, e che non possiamo praticare il dare concretamente finché esso non verrà convalidato socialmente come la modalità di comportamento al posto dello scambio. Penso che in effetti si fac-cia confusione tra il dare cure materiale e l’amore, e per questo pensiamo di amare qualcuno ogni volta che siamo orientati verso l’altro rispetto a lui/lei. Ogni bisogno che soddisfiamo sembra essere pratica del dono, anche se è il bisogno di ferirci di qualcuno che ci sta danneggiando.

Ma forse questo è dovuto alla confusione tra l’orien-tamento verso l’altro del sesso e dell’amore e l’orienta-mento verso l’altro materiale che si verificherebbe con una giusta pratica del paradigma del dono. Potremmo cominciare anche subito a praticarlo dando il nostro tempo, denaro ed energia per cambiare le strutture che ci opprimono. Se ci spostassimo al paradigma del dono, l’intera società sarebbe orientata verso l’altro e gli altri soddisferebbero i bisogni, e così ascolteremmo continuamente l’appello dei bisogni degli altri.

Ma in quel caso, molte altre persone starebbero soddisfacendo i bisogni, e perciò anche i bisogni dei nostri compagni potrebbero essere molto diversi da come sono adesso. Essere capaci di praticare l’orientamento verso l’altro materiale al di fuori delle famiglie e per il bene di tutti ci permetterebbe anche di avere un migliore orientamento psicologico verso i nostri amati. Ricevere dagli altri-in-generale come anche dare loro permetterebbe di legarci di più a essi, e noi non dipenderemmo dal sesso per una “co-muni-cazione” significativa. Abbiamo chiamato col nome giusto la ricerca di una vita “che abbia un significato”. Questa è una vita in cui si attribuisce va-lore dando e ricevendo, ed è quello il motivo per cui le viene conferito valore.

È vero che siamo particolarmente dipendenti l’uno dall’altro nei nostri rapporti personali, perché è l’unico ambito in cui quasi tutti possiamo praticare il dare e ricevere e il paradigma del dono, anche se in modo imperfetto. È perciò il più “umano” dei nostri comportamenti, a cui diventiamo molto legati. L’abbandonarsi sembra essere una minaccia per la nostra umanità. Il dare e ricevere che pratichiamo sessualmente, che fa fiorire nei nostri corpi diversi bisogni mentre avanziamo soddisfacendoli l’uno per l’altro, crea un terreno comune per la comunità a due, a cui è difficile rinunciare.

I nostri io crescono attraverso questa comunità, così come crescono nella famiglia d’origine in cui ci differenziamo come individui sulla base del nostro terreno comune con gli altri. È più probabile che l’ego mascolato o basato sullo scambio abbandoni l’altro, che sia competitivo, che neghi il legame e l’intimità, e che usi l’altro perché rafforzi con il suo nutrire il senso della propria importanza. Sfortunatamente, la socializzazione degli uomini in opposizione alla pratica di cura permette che la comunità sessuale abbia questo tipo di distruttività. La seduzione e l’abbandono (“amale e poi lasciale”) è la malattia del macho, anche se è talvolta la donna a lasciare l’uomo. Il desiderio di dominio – che è ben funzionale nell’economia competitiva dello scambio – si realizza nei rapporti personali con la forza, l’abbandono o le crudeltà mentali, come la denigrazione e la mancanza di partecipazione.

Il nutrire la competizione

I paradigmi del dono e dello scambio funzionano come due ambienti naturali che coesistono fianco a fianco, e ciò che è comportamento adattabile per uno è distruttivo nell’altro. L’ambiente della “sopravvivenza del più forte” viene considerato un sostegno per l’ambiente familiare di cure. Le famiglie più adeguate all’economia dello scambio sopravvivono. Ma questa è un’illusione, perché è proprio l’esistenza dell’ambiente competitivo che minaccia la modalità del dare cure e che la opprime fino all’esaurimento. In realtà è il nutrire/dare cure che sostiene l’ambiente competitivo, non viceversa. Ed esso non può essere eliminato senza che venga distrutto anche l’ambiente competitivo, perché la modalità dello scam-bio ha bisogno dei doni gratuiti per continuare a esistere.

Gli stessi competitori sono mantenuti da chi nutre/dà cure, e molti dei loro vantaggi vengono dal ti-po di nutrimento che hanno ricevuto; anche molti dei loro premi e ricompense vengono da chi nutre, incluse le stesse persone nutrici. Le donne belle o sexy, o anche le “buone mogli”, vengono spesso considerate un premio per gli uomini di successo. A un livello individuale, nessuno di questi aspetti sembra legato al resto, e le interazioni sembrano dipendere dalle differenze, scelte o caratteristiche personali. Da una prospettiva più ampia, possiamo però rilevare che i due comportamenti sono strettamente connessi, uniti dalle catene della loro complementarità. Per quelli competitivi è vantaggioso che la relazione non venga considerata da una prospettiva che permetterebbe a quelli che nutrono di liberarsene in modo consapevole. Infatti, come molti parassiti, i competitori assumono un aspetto mimetico, e sembra così che siano loro a praticare il nutrire/dare cure.

Gli accenti di valore

I due paradigmi vengono distinti l’uno dall’altro anche perché la capacità di definire e le sue trasposizioni nelle attività di misurazione e conferimento del valore, che mediano la proprietà privata sostituendo una cosa con un’altra e che stabiliscono equivalenze tra diversi tipi di cose che dovranno essere scambiate, tutte vengono viste post hoc come cose appartenenti all’ambito della mascolazione.

Delle donne si dice che sono “immerse nell’esperien-za”; e in effetti si può considerare l’esperienza come una cosa che funziona secondo la grana donante nella modalità del dono. Esiste un senso in cui tutte le nostre percezioni ed esperienze arrivano a noi gratuitamente. Anche se dobbiamo talvolta impegnarci per avere un tipo di percezione piuttosto che un’altra (uscire dalla porta per vedere il tramonto), se i nostri sensi funzionano in modo corretto c’è sempre qualcosa di presente da percepire. La struttura della nostra immagine del mondo dipende dall’esperienza del passato e dalla pratica di un paradigma piuttosto che di un altro, come anche dagli “accenti di valore” che si trasmettono attraverso il linguaggio e la cultura.

Le donne vengono relegate dagli uomini in quell’a-spetto della vita relativo alle percezioni e alla materialità. Gli uomini ci descrivono, condividendoci come un loro terreno comune attraverso il linguaggio mentre noi siamo, secondo lo stereotipo, immerse nel “sentire”. Ho parlato prima delle donne come coloro che stanno nell'”ombra”, l’aspetto della mater(ia), e i molti. Abbiamo questo a cui fare ricorso; è al confine dell’economia del dono, così come il linguaggio è al confine dell’eco-nomia dello scambio.

Ma l’aspetto della mater(ia) e dei molti si perde nella nebbia, mentre al linguaggio si dà un’importanza prima-ria. Sotto la superficie del linguaggio e dei dati della percezione si nasconde l’attività gratuita svolta nei secoli, ossia il lavoro di mantenimento delle cose da parte delle donne, come anche tutto il lavoro tendente-verso-l’altro non retribuito dell’intera società. Tutti i doni gratuiti del passato determinano le cose specifiche che percepiamo, e cioè le parti della cultura materiale che hanno persistito nel tempo per costruire il nostro mondo. Potremmo anche considerarci noi stessi come doni dati da altri, e considerare i nostri figli come i nostri doni. I nostri io tendenti-verso-l’altro sono meno auto-similari di quelli mascolati, più “trasparenti”; abbracciano l’altro in modo schietto senza il filtro dell’Ego. Noi siamo i figli/e che ricordano le madri (e le madri che ricordano i figli/e e che vengono ricordate dai figli/e).

I nostri aspetti “maschile” e “femminile”, almeno nella specificità con cui ci appaiono nella società occidentale, sono di fatto trasposizioni dell’Ego mascolato dello scambio e dell’io tendente-verso-l’altro quali prodotti e processi dell’economia dello scambio e dell’economia del dono. Visto che le due modalità economiche esistono fianco a fianco nella società, le strutture dell’Ego da esse promosse possono essere interiorizzate insieme. Questo crea un terzo tipo di struttura della personalità, che se anche può considerarsi come una transizione tra i due tipi di economia e avere alcuni dei vantaggi di entrambe, comporta diversi paradossi. Il nostro “donatore interno” forma legami rispondendo ai bisogni, e se i bisogni non possono essere soddisfatti possono sorgere forti emozioni. In contrasto l’Ego mascolato cerca invece l’indipen-denza e il dominio. Non è una coincidenza del tutto appropriata, né interiormente né esteriormente.

L’Ego mascolato e il contenuto dei suoi pensieri possono essere diretti al proprio guadagno o a quello della propria famiglia, come un’estensione di se stesso. L’Ego mascolato considera “oggettiva” la propria esperienza, priva del carattere di dono ma anche priva del dovere dimantenimento verso il proprio ambiente circostante. È meno consapevole dei bisogni dell’ambiente, dal letto non rifatto al bambino affamato alla discarica di rifiuti tossici. Impiega molto del suo tempo centrando l’atten-zione sul linguaggio, sulla burocrazia, sugli strumenti di tipo sociale o materiale per far fare cose agli altri, o perché gli altri diano così che lui possa ricevere. L’Ego mascolato ignora persino le cose che sono in lui; perciò i suoi bisogni devono essere soddisfatti da altri, come nello stereotipo del professore distratto. Senza una nutrice esterna, l’aspetto donante della sua personalità potrebbe alla fine doversi ribaltare e prendersi cura del proprio Ego mascolato. Così, le rimanenti parti orientate-verso-l’altro della sua personalità vengono rivolte all'”altro interno” e la persona diventa ancora più centrata su di sé.

Chi viene socializzato alla pratica del dare sviluppa un io che è già orientato verso gli altri, e l’aspetto che nutre/dà cure viene incluso come parte dell’Ego che si sviluppa nella partecipazione alla modalità dello scam-bio. Forse questo spiega la popolarità della terapia “pri-ma-io” tra le donne. Dai gruppi di co-dipendenza a quelli per promuovere la sicurezza di sé, la nostra società basata sullo scambio ci sta insegnando a mettere noi stessi per primi. Fortunatamente, visto che siamo state educate alla pratica del dono, la modalità del dono rimane parte dell’io che affermiamo. Potrebbe sembrare funzionale per lo status quo disfarsi della pratica del do-no, delle sue idee e ideali, ma l’economia dello scambio finirebbe distrutta se ciò accadesse.

Ci sono poi ovviamente dei casi patologici di orientamento verso l’altro, ma è molto più probabile che sia l’orientamento verso l’Ego a essere patologico. Social-mente, quest’ultimo sta avendo effetti nocivi su tutte le creature del pianeta, mentre viene elevato a modello di salute. Nessuno di noi ha il sospetto che stiamo facendo tutto questo perché non riconosciamo la pratica del do-no come un paradigma sullo stesso livello dello scambio. Dovremmo infatti affermare la paragonabilità dei due paradigmi, non l’uguaglianza dei sessi.

L’uguaglianza che deriva dalla mascolazione e dallo scambio è uguaglianza preliminare alla quantificazione, o uguaglianza quantitativa. L’essere diretti verso l’altro dà importanza alla varietà qualitativa. Paradossalmente, l’economia del dono produce più differenze individuali, perché non le misura secondo un unico standard di va-lore quantitativo. Se ci concentrassimo sull’economia del dono come paradigma, invece di umiliarlo e di circoscrivere le sue manifestazioni, potremmo anche usarlo per gettare luce su ciò che il paradigma dello scambio sta facendo. Potremmo leggere affermazioni quali: “Le donne sono altrettanto brave degli uomini”, come metaaffermazioni che in realtà vogliono dire: “Il paradigma del dono va altrettanto bene (o è meglio) del paradigma dello scambio”.

I giudizi

Tra le altre caratteristiche del paradigma dello scam-bio c’è la capacità di esprimere giudizi, mettendo una cosa in una categoria piuttosto che in un’altra. Come l’usanza matrimoniale per cui la donna acquisisce il nome del marito, le azioni e i desideri delle donne vengono giudicati dagli Ego mascolati come buoni o cattivi, appropriati o inappropriati ecc. Noi donne accettiamo questi giudizi degli altri per via del nostro (altrimenti positivo) orientamento verso l’altro. Per noi non è facile esprimere un giudizio sulle nostre qualità, anche se forse l’Ego interiorizzato può farlo al nostro posto. “Sarò intelligente? Sarò bella? Sarò brava?”: possiamo preoccuparci all’infinito per queste cose, orientandoci verso l’E-go anche nel definire il nostro orientamento verso l’al-tro. La nostra capacità di vederci attraverso lo sguardo dell’altro ci fa cercare la definizione che lui dà di noi e ci porta a giudicarci come lui farebbe.

Mettendo in atto la definizione, come definiens noi serviamo il definiendum che l’uomo ha di noi cercando di meritare una sua parola positiva. Confondiamo il sottovalutarsi con l'”umiltà” e lasciamo che gli stereotipi ci guidino come profezie che si autoavverano. Assorbiamo interiormente la divisione tra le parole e le cose, tra la mente e il corpo, anche se, come partecipanti all’econo-mia dello scambio, possiamo vivere oggi questa divisione in modo un po’ diverso. Le donne del passato rinunciavano al lavoro linguistico astratto, come la matematica o la finanza, perché non veniva considerato femminile. Persino oggi, dobbiamo batterci per meritare il giudizio di noi stesse, misurando il nostro valore su uno standard creato per le donne dagli uomini, dagli Ego mascolati per le donatrici.

Uno dei principi del dare è che esso non venga praticato per cercare ricompense. Così, se ci battiamo per es-sere giudicate dagli altri o anche da noi stesse come “brave” o “belle”, stiamo sconfinando nell’area dello scambio. Gli altri possono anche giudicarci gratuitamente in modo positivo, e questo a noi sembra un dono per il quale dobbiamo essere grate. A volte riceviamo il dono del giudizio “brava” o “bella” anche se non ci siamo battute per esso. Aspiriamo a questo giudizio “gratuito” degli altri, per la difficoltà che abbiamo di rimanere interiormente nella logica del dono. Cercare di tenere fede ai nostri standard innesca una dinamica di auto manipolazione.

Forse l’autocritica ci permette di rivolgerci al nostro giudizio rimanendo nel paradigma del dono. Se ci puniamo per ciò che facciamo di “sbagliato”, sembra che agiamo meno per una ricompensa che se dovessimo giudicarci “brave”. Sembra che molte brave persone vogliano sfuggire all’ossessione dell’Ego. Può forse sembrare che, evitando il comportamento mascolato, potremmo mantenerci nel paradigma del dono. In realtà, seguire un paradigma piuttosto che un altro è forse determinato non dal dominio di sé o dalla manipolazione, ma da molte ripetute azioni, motivate in una direzione o nell’altra in diversi tempi e situazioni e su diversi livelli. I contesti esterni e interni determinano il successo e la validazione pratica di queste azioni.

Il bisogno che si abbia bisogno di noi

Noi donne cerchiamo forse di coltivare in noi le caratteristiche cui gli uomini darebbero valore, migliorando il nostro essere “attraenti” perché ci diano attenzione, perché usino i nostri doni e ci diano il dono del loro giudizio positivo su di noi. In effetti abbiamo sempre avuto l’incubo della “vecchia zitella”, della donna i cui doni siano rimasti inutilizzati, magari per non essere abbastanza brava; e senza nessuno che abbia bisogno di lei. Abbiamo bisogno del bisogno degli altri per poter praticare l’economia del dono con loro, sia dando loro cure con diversi tipi di beni, sia “dandoci” a loro. Aver bisogno del bisogno dell’altro è stato screditato dalla nostra cultura, ma fa parte della perplessità creata dalla coesistenza di pratica del dono e scambio.

Ad esempio, le madri “asfissianti” protraggono troppo a lungo la cura dei figli. Queste hanno bisogno che si abbia bisogno di loro perché il loro dare è rimasto intrappolato all’interno della famiglia. Sono incapaci di trovare bisogni da poter soddisfare all’esterno della famiglia, o di rivolgersi agli “altri-in-generale” lavorando per il cambiamento sociale. Paradossalmente, in un ambito di penuria, c’è anche una penuria di bisogni cui i donatori possono avere un accesso che sia socialmente convalidato e “significativo”. Se l’economia del dono fosse considerata una norma, tutti avrebbero bisogno di tutti.

In un’economia del dono, probabilmente alcuni tipi di interazioni specifiche e abituali si formerebbero sulla base del riconoscimento generale dei valori del paradigma del dono e delle strutture della personalità a esso connesse. L’accesso alle persone che hanno bisogni non verrebbe negato a chi ha la capacità e l’energia di nutri-re/dare cure, e il flusso di doni non si arresterebbe. Dare e ricevere non verrebbe più etichettato come “umiliante” ma diventerebbe un comportamento normale. La terra ci attrae a sé, l’acqua scorre lungo i pendii, i venti si spostano secondo la pressione atmosferica; anche nelle cose umane esistono una gravità e una pressione specifiche, che devono essere rispettate. Lo scambio funziona come un sistema di chiuse lungo un fiume, che fa salire l’acqua verso l’alto, allontanandola da chi ha i bisogni e dirigendola verso coloro che hanno già più che a sufficienza. Il nostro altruismo viene manipolato e rivolto contro di noi. Abbiamo un disperato bisogno di convalidare il flusso originario.

Anche nelle relazioni personali esiste una gravità, e anche su questo livello il flusso può essere alterato. Si comincia a contare sul nutrimento/cure di qualcun altro, interiorizzandolo come qualcosa che “meritiamo”, considerandolo una ricompensa per la nostra buona azione di un certo tipo. Poi si afferma la validità di questo fondamento logico insistendo per essere nutriti/cu-rati nel modo in cui siamo abituati. Quando l’altro non lo fa per noi, lo facciamo noi per noi stessi, procurandoci o prendendo ciò di cui abbiamo bisogno o di cui crediamo avere bisogno, senza più rispettare i desideri del-l’altro. È fin troppo facile comportarsi così nell’econo-mia dello scambio in cui viviamo, perché questo tipo di atteggiamento è “normale”. Se vivessimo in un’econo-mia del dono, manterremmo una situazione di orientamento verso l’altro, guardando ai bisogni degli altri e soddisfacendoli, ma anche confidando nel fatto che gli altri faranno lo stesso nei nostri confronti; e la struttura dell’ego mascolato non sarebbe necessaria.

Io credo che, in pratica, una tale fiducia ben riposta renderebbe più trasparente la nostra esperienza. Non esisterebbero tante paure, bigottismi e odi, perché non sarebbe necessario doversi continuamente difendere, sia dall’appropriazione violenta degli altri, dall’indifferenza e dalla manipolazione, sia dalla nostra stessa autocritica per aver fatto qualcosa agli altri “per la nostra sopravvivenza”. In altre parole, non esisterebbero più le strutture artificiali che bloccano il flusso della compassione. Queste strutture provocano inoltre i timori, l’autocom-miserazione (l’orientamento verso l’Ego della compassione) e l’afflizione che bloccano la limpidezza dei nostri io e le nostre interazioni. Vorrei solo ribadire che io non credo che questi siano “colpe” della persona orientata verso l’ego, visto che è l’intero sistema del patriarcato a spingerla in quella direzione; i termini della colpa e del pagamento sono in realtà valori basati sullo scambio e perciò convalidano il paradigma dello scambio, anche se applicati a uno dei suoi difetti.

Sono invece le più ampie strutture sociali auto-simi-lari che convalidano la logica dell’ego mascolato a dover essere riconosciute come poco pratiche, obsolete e dan-nose. La mascolazione e le sue proiezioni esterne dovrebbero essere considerate modificabili e di fatto nocive per la società in generale, come anche per l’individuo. Praticando le cure verso chi possiede o è posseduto da un ego mascolato, possiamo renderci conto che questa persona ha in realtà bisogno di smantellarlo e di ricomporlo; che sarebbe più felice e più efficace senza di esso,perché sarebbe più orientato verso l’altro. È possibile creare un ambiente in cui l’orientamento verso l’altro sia convalidato e interiorizzato in quanto tale, e che non sia rivolto principalmente verso “l’altro interno” o il dominatore esterno o interno. Tutto questo sarebbe possibile se evitassimo di mascolare i nostri maschi e se cambiassimo il paradigma dello scambio con il paradigma del dono, convalidando i valori che la maggior parte delle donne (e molti uomini) hanno già.

La monetizzazione della manodopera non solo incarna alcuni dei processi della definizione, come la sostituzione e l’equivalenza, ma funziona anche come un giudizio sul valore di una persona per la società. Il denaro e il libero mercato ci misurano secondo uno standard che si suppone uguale per tutti e obiettivo, e per questo è an-cora più difficile sopportare se in base a esso veniamo giudicati negativamente, o se rimaniamo completamente esclusi dall’economia monetizzata. I salari delle donne, essendo più bassi di quelli degli uomini, ci definiscono negativamente come “meno” degli uomini, in partenza. L’esemplare economico del giudizio in funzione del salario ha quindi un risvolto su altri tipi di giudizio, e rafforza il loro potere su di noi. Noi ci misuriamo e ci motiviamo in base a uno standard monetario, influenzando il nostro giudizio di noi stessi e degli altri in quanto bravi, intelligenti, efficienti ecc.

Questi giudizi sembrano venire da un qualche standard esterno per il quale il valore è valutato “obiettivamente”, e che ben si concilia con la valutazione quantitativa dell’ego mascolato. Siamo una società ossessionata dalle valutazioni, dalle classificazioni nelle scuole al conteggio delle calorie, dai notiziari sul tempo ai test psicologici. Ci sottomettiamo ai test e lasciamo che la valutazione domini il nostro comportamento. Persino nel nostro inti-mo esame di coscienza ci giudichiamo e ci dominiamo con l’autovalutazione. Gran parte dei movimenti per l’au-tostima sono volti a contrastare gli effetti totalmente negativi del dominio attraverso l’autovalutazione negativa.

È chiaro che diamo valore ai criteri e ai giudizi, se ci sottoponiamo a essi; l’autoritarismo parentale, la moralità e la religione sono concepiti per farci dare questo tipo di valori. Ma se non lo facessimo sarebbe molto più difficile per gli altri dominarci, soprattutto psicologicamente.

Si è creato una sorta di sistema di scambio secondario, nel quale noi ci battiamo per il riconoscimento. Sottoponiamo alcune nostre azioni all’esame attento degli altri, e il giudizio che essi ci danno è la nostra ricompensa. Persino il dare viene spesso praticato con questa idea. Aspiriamo ai giudizi di altri che ci dicano “bravo” o intelligente, o capace; poi, dopo averli ricevuti, li usiamo per formare le nostre identità, i nostri concetti dell’io.

Dare o rifiutare questi giudizi, e dare un giudizio negativo, sono i modi in cui alcune persone hanno potere su altre. Uno dei motivi che ci portano a voler ricevere una definizione positiva dagli altri e ad attribuirle tanta importanza, è lo schema fondamentale del giudizio in base al salario, che è a sua volta influenzato dallo schema fondamentale della determinazione del prezzo dei prodotti. Anche i nostri rapporti d’amore seguono spesso questi schemi. Ognuno di noi viene “valutato” da chi ci ama, scelto perché “migliore” di altri “prodotti” o “impiegati” simili (adesso gli economisti parlano addirittura di “mercato dei matrimoni”). Non dovrebbe essere così; siamo troppo influenzati dagli archetipi inconsci dello scambio, mentre saremmo molto più felici senza di essi.

Talvolta interiorizziamo il processo di valutazione e giudizio, dominandoci secondo i valori della società o secondo i nostri valori personali. Mediante questa attività interiore, che sia per il dominio o l’accettazione di sé, confermiamo noi stessi in quanto “bravi” ecc. La moralità segue queste stesse linee, inducendo alla “giusta condotta” in un ambito basato sullo scambio. Incapace di risolvere realmente i problemi esistenziali o di spostare il paradigma socialmente, la moralità, come la beneficenza, fa buon viso a cattivo gioco. Probabilmente salverà individualmente chi la pratica, facendolo diventare “buono” invece che “cattivo”; ma costui sarà comunque incoraggiato a concentrarsi sulle proprie qualità, rimanendo così orientato verso l’Ego, senza minacciare il paradigma.

Il “prezzo” del non praticare le cure e del non dare valore al dominatore può anche essere la violenza fisica. Il “dono” viene così forzato, e diventa come il “dono” del lavoro di uno schiavo. Per secoli, nel corso del patriarcato, la gente è stata costretta in situazioni in cui la violenza era la punizione per non aver dato. I molti vengono puniti dagli uni o dalle gerarchie per inadempienza o ribellione; l’obbedienza diventa perciò un’abilità necessaria alla sopravvivenza.

In una tale situazione, l’espediente temporaneo della generosità personale può sembrare l’unica risposta con-creta alla sofferenza. Quando però si pratica il dare individualmente, non sembra che si stia proponendo un modello sociale percorribile e non si offre quindi una soluzione al problema generale, che deve invece avvenire su una scala più ampia. Molti degli individui che nutro-no/danno cure vorrebbero forse cambiare i paradigmi sociali; ma il problema è che non vedono le cose in questi termini né sanno come ciò sia possibile.

I movimenti contro la violenza sessuale e domestica hanno coordinato attività di cure individuali per un cambiamento sociale al livello della famiglia. Non stanno an-cora sfidando altri aspetti del patriarcato, come la violenza ambientale e internazionale, anche se stanno accentrando l’attenzione su un problema importante; stanno praticando i valori delle cure, e sono organizzati. Altri movimenti per un cambiamento sociale, i movimenti per la pace, per l’ambiente, per la giustizia economica e per la liberazione dei popoli stanno svolgendo attività importanti per un cambiamento sistemico, ma generalmente non indicano gli schemi patriarcali come problema di fondo, né i valori delle donne come soluzione al problema.

Si possono fare considerazioni simili sul tipo di soluzioni proposte dalle strutture governative: nonostante i buoni propositi, che a breve termine possono anche esse-re funzionali, queste si stanno muovendo a partire dalle fondamenta dello scambio. Ad esempio, il richiamo alla responsabilità individuale contro la dipendenza, che mira a eliminare l’assistenza sociale integrando le persone al mercato, è una soluzione che aggrava il problema, enfatizzando gli stessi valori che lo hanno provocato. La pratica del dono, così come viene svolta dallo Stato paternalistico, è umiliante e inefficace. La colpa viene erroneamente attribuita all’atto del ricevere, che viene considerato passivo e stupido, denigrato come una cosa praticamente subnormale. Il dare-e-ricevere creativo viene in questo modo sostituito dall’integrazione individuale allo scambio e dal rafforzamento dei valori capitalistici mascolati.

L’altruismo individuale può forse offrire un modello di pratica del dono, estendendo il proprio campo d’in-fluenza a un gruppo più ampio. Ma pur essendo un tentativo di giungere alla radice del problema, è solo un modo di vivere all’interno del paradigma dello scambio, che contribuisce a un certo grado di sanità mentale e a un comportamento di aiuto verso gli altri ma senza cambiare niente radicalmente. La compassione, la beneficenza e la moralità, se praticati soltanto come approcci individuali, non portano a uno spostamento di paradigma, che è invece necessariamente un processo collettivo.

Per questo è importante vedere la presa di coscienza delle donne – del movimento internazionale delle donne – alla luce del paradigma del dono. Il paradigma del do-no è già nei valori di cura delle donne, e quando le donne convalidano individualmente i propri valori (non quelli del patriarcato), fanno già parte di una collettività di oltre il 50 per cento dell’umanità. Il paradigma del dono è profondo, molto esteso e non riconosciuto. La mascolazione avviene presto nei maschi, ma le donne assumono i valori della mascolazione più tardi, nel vedere il mondo con lo sguardo dei loro “altri”, cioè di quegli umani che la società ha alienato da noi e che noi nutria-mo in eccesso.

Prendendo coscienza dei nostri valori orientati verso l’altro in quanto paradigmatici, le donne che lavorano per un cambiamento sociale possono liberare tutti noi dai valori della mascolazione che si sovrappongono ai valori delle cure. Proponendo il paradigma del dono come una modalità umana per tutti, possiamo anche liberare gli uomini e l’intera società dalla sala degli specchi del paradigma dello scambio. Gli uomini e le donne possono riconoscere il carattere estraneo e inutile della mascolazione, fare un passo indietro e smantellarla in modo non mascolato e non violento. La transizione verso un sistema diverso può risultare facile, perché il sistema alternativo non deve essere inventato da zero; esso esiste già, nella pratica del dono svolta da metà dell’u-manità e che forma la matrice nascosta dell’altra metà.

Riportare l’umanità alla madre

Il tipo di orientamento verso l’altro funzionale alla cura dei figli è interattivo e diverso dalla moralità che cerca di imporre la “giusta azione” e i “giusti comportamenti” sugli altri o su di sé. La moralità può anche sconfinare nel nutrire/dare cure, soprattutto quando è difficile soddisfare i bisogni a causa della scarsità o delle pressioni: in tempi difficili, è possibile doversi “forzare” ad agire in modo orientato verso l’altro nei confronti del figlio o dell’altro, assumendo cioè il nutrire/dare cure come una questione morale.

I filosofi reazionari e macho hanno interpretato il le-game madre-figlio come “naturale”. Dare valore ai bisogni dell’altro non è “naturale” in senso irrazionale, manon fa neanche parte della moralità basata sulle regole. È un principio sui generis – di un tipo specifico in sé – che può non essere riconosciuto in quanto tale perché non contiene in sé quegli elementi dell’ego auto-riflettenti mediante i quali di solito riconosciamo qualcosa come un principio, o come “re-ale”, perché il nostro pensiero avviene tanto spesso nell’ambito della modalità mascolata.

Se i nostri ego e le nostre interpretazioni filosofiche della re-altà sono orientati verso l’ego e sono prodotti dallo scambio e dalla mascolazione, le cose non orientate verso l’ego che facciamo rimangono fuori del loro ambito; non diventano coscienti, o almeno non allo stesso modo. L’egoismo è strumentalizzato così da costringerci a dare valore a ciò che può essere utile ai suoi scopi, e non ad altre cose. Esso vede riflesse le proprie strutture, e definisce “reale” questa visione familiare, mentre le cose che non hanno quella impronta sono estranee, irrilevanti, irreali. L’Ego auto-similare è un po’ come un animale che marca il proprio territorio con l’urina, e poi lo riconosce come proprio. Nella pratica del dono, non siamo impegnati di solito a marcare il nostro territorio, ma a provvedere al benessere dell’altro su un qualche livello.

Se il linguaggio è basato sulla pratica del dono, questa non può essere considerata prevalentemente pre-ver-bale e infantile. Se potessimo aggiungere al linguaggio altre manifestazioni di pratica del dono, come il sogno, l’arte e l’attività volta al cambiamento sociale, vedremmo cominciare a emergere il dare come il massimo principio non riconosciuto della specie umana. Dobbiamo capire che la Madre è per-donante e che sia gli uomini sia le donne possono esserlo; e che lo scambio – scaturito dal processo di denominazione e definizione – non lavora per soddisfare i bisogni dei molti. È soltanto assumendo il principio della Madre – non in quanto biologico o istintivo, ma come una pratica umana cosciente e creativa – che saremo in grado di soddisfare i diversi bisogni materiali e culturali dei 5 miliardi e mezzo di per-sone che vivono oggi in tutto il mondo.

Ciò che dobbiamo fare adesso è portare la modalità del dono alla coscienza orientata verso l’Ego, per rivelare la sua convenienza per tutti. Ciò è possibile guardando alle cose a partire da un meta-livello, con una prospettiva globale, e nei termini di una totalità. L’interesse dell’ego e l’interesse per l’altro coincidono infatti sul livello globale. La sopravvivenza del pianeta (interesse per l’altro) coincide con la sopravvivenza dell’ego individuale e anche dell’intero sistema complementare di scambio-e-pratica-del-dare. Se siamo tutti destinati a perire nella distruzione del pianeta, ognuno di noi può dare la propria energia per risolvere i problemi che stanno portando alla sua distruzione, comunque sia orientata la nostra motivazione, verso l’ego, verso l’altro, o verso una combinazione di entrambe le cose. Per chi è orientato verso l’ego, questo è un momento di transizione verso la pratica del dono. Da un meta-punto di vista, che tiene conto di entrambi i paradigmi, possiamo tutti optare per uno spostamento di paradigma. Questo è il principio della soluzione.

Io credo che le pratiche spirituali che fanno appello alla singolarità di ognuno di noi stiano cercando in realtà questo meta-livello, mentre impostano la loro ricerca in termini che si richiamano alla superiorità dell’u-no in opposizione ai molti. Pur proponendo un uno inclusivo – e l’inclusione è un aspetto della logica del do-no – non si concentrano sulle effettive dinamiche patriarcali tra l’uno e i molti.

Da un punto di vista più globale, è possibile include-re entrambi i paradigmi sullo stesso livello d’importan-za. Il paradigma dello scambio auto-riflettente non è più importante del paradigma del dono, anche se la sua forma auto-similare crea questa illusione. Il paradigma del dono può costituire da solo la logica del comportamento umano. Guardando a entrambi i paradigmi da una prospettiva più ampia, reintroducendo il criterio della competizione tra i paradigmi – che non è contraddittorio perché sta avendo luogo su questo livello “superiore” – possiamo constatare che il paradigma del dono ha la meglio, in quanto sistema umano più funzionale di pensare e di agire.

Possiamo smettere la nostra lotta individuale per diventare esemplari e lasciare che sia il paradigma del do-no a diventare l’esemplare del comportamento umano. Se poniamo fine alla mascolazione, allora il linguaggio, la definizione e la denominazione, liberi dalle loro incarnazioni auto-similari, potranno portare avanti la mediazione creativa delle soggettività e delle culture umane in un mondo in cui la pratica del dono materiale sia la norma. Se analizziamo e capiamo abbastanza bene lo scam-bio, l’Ego e i suoi elementi, possiamo conservare eventuali loro aspetti che siano utili per tutti. Nello stesso modo in cui potremmo usare alcune tecnologie in modo pacificamente ed ecologicamente sano per fornire i mezzi per nutrire/dare cure a tutti in abbondanza, possiamo forse decidere di mantenere alcuni elementi dello scam-bio e della coscienza orientata verso l’ego per provvedere ad alcuni tipi di attività utili e ad alcune parti della struttura della nostra personalità.

Reinterpretare la moralità come un comportamento che può creare la transizione verso il paradigma del do-no suggerisce che dovremo agire secondo l’orientamen-to verso l’altro e il dare vita e promuovere la consapevolezza di questo comportamento come paradigmatico 1 .

Amore condizionato e incondizionato

La moralità non funziona in modo efficace, e questo per via degli schemi di dominazione che permeano le sue regole. Un dono forzato sia dall’esterno sia dall’interno perde molti degli aspetti positivi del dono. Noi ci mettiamo inoltre in una posizione tale da poter essere manipolati. Come nella mascolazione o nella definizione in base al denaro, noi dipendiamo in larga misura dal giudizio degli altri. Vorremmo soltanto che le nostre azioni fossero misurate e valutate nel modo giusto. Nell’amore, potremmo cercare forse di fare in modo che gli altri siano orientati-verso-l’altro nei nostri confronti invece che es-sere noi orientati-verso-l’altro nei loro confronti; alcuni tipi di giudizi positivi su di noi sembrano renderlo possibile. Ad esempio, sollecitiamo i giudizi positivi degli altri rendendoci belli; poi li amiamo perché loro ci amano. Così, abbiamo con loro la stessa attitudine che abbiamo verso di noi amando noi stessi: la parte di noi che ama il nostro Ego basato-sullo-scambio. Nelle nostre relazioni con noi stessi e con gli altri, interiorizziamo ed esteriorizziamo le relazioni tra i paradigmi.

Nella nostra società crivellata di terapie di vario tipo si parla molto dell’amore incondizionato. Ciò che i terapisti hanno scoperto è forse la qualità curativa dell’amo-re come dono orientato-verso-l’altro, in una società del-lo scambio, dove gran parte dell’amore che viene dato è strutturato secondo il ricatto e il baratto, “dato” secondo il principio se/allora. Coloro che si amano al di fuori del paradigma dello scambio possono considerarsi messaggeri di un mondo migliore.

I bisogni urgenti di chi ci è vicino possono richiamare il dono dell’amore incondizionato. La tragica epidemia di AIDS ha stimolato molta pratica del dono senza attaccamento. I movimenti contro gli abusi infantili, le aggressioni, la dipendenza dalle droghe, per la pace, l’ambien-te, e i movimenti anti-nucleare, i movimenti per la liberazione dei popoli, richiedono tutti ore di dedizione sconfinate, un grande impegno di energia vitale e d’inventiva.

“Liberare” gli altri dalla nostra attenzione (come suggeriscono i maestri del pensiero positivo) funziona perché assicura la continuazione dell’orientamento-verso-l’altro nei confronti di qualcuno senza che debba esserci un qualche ritorno da parte sua. D’altra parte, una posizione tanto estrema come l’amore unilaterale non sarebbe necessario se la società non fosse distorta tanto profondamente dallo scambio. Il dare e ricevere attivo, il fare a turno, è un comportamento appropriato tra due persone (come anche tra loro e il resto della società) e può avere luogo senza implicare necessariamente il dare allo scopo di ricevere.

È solo dopo essere stati tanto feriti dallo scambio e dalla dominazione da non avere più fiducia negli altri, che abbiamo bisogno che gli altri ci amino unilateralmente e incondizionatamente. Ma è probabile che vedremmo con diffidenza anche questa soluzione, visto che i terapisti, come anche la società e i nostri genitori, ci hanno insegnato che è sbagliato ricevere senza dare niente in cambio. Vorremmo l’amore come dono incondizionato, ma ci è stato insegnato che lo scambio è l’unico modo rispettoso e umano di comportarsi, perciò potremmo sospettare che l’amore come dono sia in realtà un trabocchetto, la prima mossa di uno scambio in cui ci siamo ritrovati senza volerlo (ci hanno amato senza che noi glielo chiedessimo!) e che non potremmo mai “ripagare”.

Essere genitori

Molte delle nostre pratiche relative all’essere genitori sono barbariche. Facciamo obbedire i figli minacciandoli di abbandono o malmenandoli, insegnando in questo modo lo scambio e il ragionamento condizionale se/allora: “Se farai questo, potrai avere quest’altro” 2 . Facciamo in modo che i figli diano valore a noi e alle nostre parole, secondo la nostra volontà. In questo ca-so, la rinuncia della volontà e la soddisfazione del bisogno dei genitori di essere obbediti sono imitazioni grottesche del nutrire ed essere nutriti.

Anche da adulti, la minaccia dell’abbandono ci perseguita. La società fa con noi la stessa cosa che hanno fatto i nostri genitori. Lo spettro di rimanere senza casa, soli e senza un impiego, incombe su ogni casa, posto di lavoro, famiglia e individuo. C’è una minaccia costante di scarsità d’amore, come anche di scarsità di denaro e di beni di nutrimento. Nella nostra società orientata verso lo spreco, secondo il modello del prodotto per il qua-le non esiste nessun mercato o che viene usato appena dal ciclo accelerato di produzione-scambio-consumo, potremmo improvvisamente ritrovarci scaricati su un mucchio di spazzatura. Rigettati dalle categorie privilegiate del mercato, veniamo messi nelle pattumiere del tempo e dello spazio. Una tale situazione influenza gli ego sia “maschili” sia “femminili”, intimidendoli in una posizione di dominio o sottomissione, facendo loro seguire il modello di don Giovanni di dominio uno-molti del denaro o il modello del prodotto utile della Super Mamma, per paura di essere scartati o abbandonati.

Sfortunatamente, le immagini falliche e i modi fallici rafforzano in ogni momento l’Ego mascolato nella nostra società. La mancanza di rituali e di attività significativi al di fuori di questi schemi mette in luce gli schemi della mascolazione. Ogni cosa, dall’esercito all’economia di sfruttamento, integra l’idea di mascolinità con quella di aggressività. Gli adolescenti maschi imparano a dominare gli altri ostentando grosse macchine falliche o mol-te fidanzate; le adolescenti femmine imparano a prestare attenzione alle grosse macchine e alla possibilità di esse-re sedotte e abbandonate. Dal missile al numero 1, dalla Trump Tower alla torre d’avorio, l’immagine fallica au-to-similare attira l’attenzione su di sé, creando rituali cristallizzati con i quali tutti nella società possono continuamente relazionarsi secondo la loro posizione o ruolo specifico. Dato che questi oggetti sono presenti nella vita di tutti i giorni non riconosciamo il loro continuo potere, ma in ogni momento il nostro comportamento e le nostre motivazioni ne subiscono inconsciamente l’in-fluenza.

Praticare lo scambio per poter praticare il dare è il compromesso o ibrido tra i due paradigmi che propone la società. Ma se diamo allo scopo di ricevere economicamente è più probabile che poi facciamo lo stesso nelle nostre relazioni. Quando soppesiamo lo scambio emotivo e sentiamo di non aver ottenuto abbastanza, ci sem-bra più ragionevole rinunciare, per non essere autodistruttivi. Il nostro compagno può non contribuire abbastanza in casa, talvolta monetariamente, oppure non dare abbastanza emotivamente, o andare con altre, e perciò non “scambiare” con noi. I terapisti e gli amici aiutano a valutare le azioni giuste o sbagliate del compagno, misurando l’opportunità che si rimanga attaccati a lui.

Nelle relazioni basate sulla pratica di cura, il dare è un dato in sé, che assicura uno spazio per entrambi, lasciando un maggiore margine di sviluppo. L’attrazione sessuale suscita moltissima attenzione da parte dell’altro. Ciascuno “investe energia” nell’altro, poi vuole dargli nutrimento/cure ed essere ricevuto da lui/lei. Io credo che in realtà quasi tutte le relazioni comincino col dare e che poi, non appena cominciano a capitare cose negative, irrompa il ragionamento dello scambio: il donatore comincia a voler essere un ricevente e a calcolare quanto ha dato; “stabilisce dei limiti”, soprattutto quando vede che non può continuare a dare così e che deve paradossalmente passare alla modalità dello scambio per poter continuare a dare.

Agendo secondo il paradigma del dono, co-muni-ca-re materialmente ci rende più suscettibili di continuare ad amare unilateralmente. Forse è per questo che tante donne continuano ad amare, a mantenere i figli che gli uomini abbandonano, e a rimanere fedeli persino al marito donnaiolo. Anche in un ambiente ostile, l’economia del dono si auto-perpetua, almeno per un po’. Se praticassimo il dare in abbondanza – non solo in casa, ma socialmente, come un modo di organizzare la nostra economia e le nostre istituzioni – le nostre relazioni umane migliorerebbero e i nostri conflitti interiori sarebbero più facilmente risanati.


1. In questo modo potremmo riconsiderare l’imperativo categorico kantiano così da poterci chiedere non solo se il principio (il paradigma) che sta alla base delle nostre azioni possa essere generalizzato, ma anche in modo tale da poter diventare coscienti della sua generalità e istituzionalizzarla. Il paradigma dello scambio non può essere generalizzato come modalità di comportamento per tutti, perché ha bisogno dei doni dei molti per poter funzionare. Richiede, cioè, che molti pratichino il paradigma del dono verso di esso. Chi vuole estendere il “libero” mercato a tutti non prende in considerazione questo fatto. Torna alla nota 1 nel testo.↩

2. Russ Rymer ha descritto il caso di una bambina “selvaggia” priva di linguaggio. Il libro di Rymer (1993) dimostra la scarsa pratica del dare ricevuta dalla bambina. In primo luogo, come vittima d’isolamento e abuso da parte dei genitori, poi come pedina degli interessi accademici burocratici, era altrettanto lontana dal nutrire/dare cure che Victor of Aveyron, che un secolo prima aveva subito il severo autoritarismo di Jean-Marc Itard. Genie era in grado di categorizzare, ma non imparò mai la sintassi. Aveva una stanza piena di contenitori, secchielli di sabbia e bicchieri di plastica: a me sono sembrati analoghi alle categorie della parola senza doni. Credo che l’idea di “appartenere a” o di proprietà non fosse sufficiente per apprendere il linguaggio. Ave-va bisogno della co-municazione di nutrimento/doni prima del linguaggio. Non partecipava abbastanza al dare e ricevere esterno allo scambio per essere in grado di generalizzarlo alle relazioni nel linguaggio e per attribuire valore come gli altri. Rymer sostiene che anche dopo essere stata liberata dalla cattività, la bambina fu usata come cavia da esperimento da chi si “prendeva cu-ra” di lei. Genie raggiunse lo “stadio chiave” di sviluppo, ma non poté andare oltre; non sapeva proiettare le relazioni di dono in parole. Le incapacità di Genie mostrano il difetto dello scambio: per lo scambio, la categoria è più importante dei contenuti. Inoltre, gli umani (soprattutto i maschi mascolati) sono valutati per ciò che hanno e per ciò con cui si suppone siano nati: il genere maschile, l’anima, una personalità, un’identità e (ritengono alcuni) il linguaggio; mentre invece la pratica del dono costruisce queste “proprietà”. A Genie non fu dato gratuitamente e, perciò, non conobbe il modello del dare gratuito con il quale avrebbe potuto dare valore orientato-verso-l’altro ai contenuti delle categorie o costruire linguisticamente il proprio io sociale. Torna alla nota 2 nel testo.↩

Capitolo ventiduesimo: Speculazioni cosmologiche

Capitolo ventiduesimo: Speculazioni cosmologiche

La vita sulla Terra è un tentativo della Terra di imitare o di esprimere la sua relazione con il Sole. Dal momento che il processo della vita e della morte ha lasciato un humus del passato con il quale il futuro potesse crescere, questa espressione è cambiata nel tempo. La Terra, in tutta la sua fertilità e varietà, è un prodotto dell’in-terazione tra il Sole e la stessa Terra, per la quale il Sole dà un tipo di energia costante e la Terra dà una gran varietà di energie. La Terra ha una storia e un’evoluzione; il Sole no, o almeno non sembra averle, visto che la sua evoluzione è molto più lenta. Ciò che accade oggi sulla Terra si basa su ciò che è rimasto delle cose accadute in passato. Gli strati della Terra su cui crescono le piante, e su cui camminano persone e animali, sono sottoprodotti di eventi passati, per ognuno dei quali la Terra ha usato l’energia del Sole. I sistemi ciclici, come gli alberi e i fili d’erba, si rivolgono in alto verso il Sole; dopo aver incorporato l’energia della luce, diventano loro stessi raggi solari della Terra, o “raggi terreni” che si stendono verso lo spazio.

Gli animali e gli esseri umani eretti, su quattro gambe o su due, o gli uccelli che volano in alto verso le nuvole, sono energie della Terra in movimento verso l’alto. Ma al di là di questo c’è la nostra capacità di locomozione verso un obiettivo. Guidati dalla nostra vista, ci muoviamo da un posto all’altro, così come la luce si muove dal Sole alla Terra. In questa dimensione, la vita imita la propria origine. Analogamente, gli spermatozoi si muovono verso l’o-vulo; l’ovulo prodotto si muove verso il luogo dell’utero in cui avviene la fecondazione. Ma anche nella dimensione della coscienza, sorge un’intenzionalità all’autopropul-sione; come un raggio di Sole che si sprigiona verso la Terra, questa si muove verso il proprio obiettivo, talvolta combinandosi con altri elementi di vita del passato per produrre un certo risultato, un raggio solare incorporato ai raggi della Terra, energie terrestri che danno frutti.

Le nostre voci e le voci di animali, di pesci e uccelli, si sprigionano dalla gola e arrivano alle orecchie ricettive, dove vengono incorporate e diventano comprensione e comportamento e sensazione. La luce solare della nostra attenzione illumina la nostra esperienza passata, presente e futura, come anche l’esperienza di altri che arriva a noi attraverso i sensi, o attraverso le loro storie, o leggendo e osservando. La nostra attenzione cosciente brilla sui nostri io, e ci aiuta a pianificare e a decidere, a chiarire le nostre intenzioni e a metterle in atto. Ma socialmente si è creato una sorta di gioco degli specchi, per il quale restiamo intrappolati nel nostro stesso rifles-so, concentrando energia dentro di noi.

Questo gioco si è combinato con l’uso dell’energia accumulata dagli altri, o dal gruppo, per alimentare l’ener-gia che si concentra sull’io. È come se il raggio solare venisse incorporato alla Terra e ritornasse indietro verso se stesso moltiplicato, come se anche i raggi solari fossero un sistema chiuso. Si fa confusione tra la vita – piante e animali – e l’energia. Per di più, sotto questa forma, l’at-tenzione concentrata sull’io di una persona può danneggiare gli altri, appropriandosi della loro energia per intensificare la propria. Il Sole non funziona in questo modo. Il gioco degli specchi crea un appetito insaziabile di concentrarsi e di risplendere sull’Ego in modo più intenso, attraendo continuamente l’attenzione degli altri.

In quanto esseri umani di varietà e culture differenti, abbiamo cercato di capire chi siamo, cosa stiamo facendo o pensando di fare e dove stiamo vivendo. Solo di recente l’astronomia ha cominciato a darci una visione più corretta dell’universo, del nostro pianeta e della nostra stella. Non è strano né sorprendente, perciò, pensare di aver potuto commettere degli errori rispetto alla direzione che abbiamo scelto per noi e all’idea che abbiamo avuto dei nostri obiettivi.

Freud ha capito bene che nella sua epoca (ma in realtà anche nella nostra) i figli avevano un’idea piuttosto distorta del funzionamento del sesso, che influenza-va il loro pensiero e le loro emozioni. Sembra logico che una falsa cosmologia possa avere gli stessi effetti negativi sul nostro immaginario collettivo. L’idea che il Sole fosse al centro dell’universo può aver influenzato il nostro pensiero e comportamento sociale più di quanto pensiamo; e l’idea di trovarci in un minuscolo granello di polvere illuminato da un fascio di luce nel mezzo di miliardi di altri granelli colpisce la nostra immaginazione e non le giova. Invece, la Terra vista dalla Luna è una prospettiva dalla quale possiamo forse porci in un contesto creativo: la Terra è un luogo molto speciale, una goccia di vita che risplende; e noi siamo parte di essa.

Non aveva ragione Copernico, ma Tolomeo: la Terra è al centro dell’universo, del nostro universo, perché siamo esseri umani. Adesso che cominciamo a capire cos’è la Terra, potremo forse capire meglio cosa siamo e cosa dobbiamo fare.

Dobbiamo prima di tutto rispettare il pianeta, alla cui vita apparteniamo tutti noi. In questo caso non è sorprendente che i raggi solari risplendano nella nostra direzione, ma che la Terra sia capace di creare qualcosa con essi. Dobbiamo vederci come luce incorporata, vita incorporata. Dobbiamo essere come Goldilocks e trovare la cosmologia della nostra dimensione, una visione della Terra che sia “giusta” per noi. Dobbiamo trovare la nostra posizione sulla Terra e all’interno del sistema solare, per poter chiarire la nostra relazione reciproca. Un problema specifico che molti di noi hanno oggi è vedersi come persone singole, legate come individui allaspecie umana di cinque miliardi e mezzo di persone. È stupefacente l’affinità di questo problema con la considerazione della nostra Terra e del Sole nel loro rapporto con miliardi di altri soli e possibili pianeti, via via che vengono scoperte molte altre nuove galassie.

Potremmo chiamarla la teoria della conoscenza per proiezione: proiettiamo un interrogativo umano pres-sante su uno specifico ramo della conoscenza, e poi lo ritroviamo in esso. Non intendo dire che la conoscenza che si ottiene in questo modo non possa essere vera, ma che l’impulso a cercarla sia un problema esistenziale collettivo o sociale, piuttosto che un motivo di “curiosità” scientifica puramente asettica, o un motivo individuale non-così-asettico rivolto al profitto. E l’avidità di conoscenza non è forse una sorta di traduzione della bramosia o avidità di beni e denaro che motiva la nostra società basata sullo scambio?

La teoria dell’evoluzione secondo la sopravvivenza del più adeguato, che si è sviluppata contemporaneamente all’economia capitalista secondo la sopravvivenza del più adeguato, è un altro esempio calzante. Forse, se capissimo il meccanismo della proiezione, potremmo capire perché lo stiamo facendo, qual è il disagio persona-le o sociale che stiamo cercando di curare. Così potremmo scoprire quanto contribuisce la proiezione nella nostra prospettiva, quanti elementi vengono visti o ignorati a causa di essa. Cosa ancora più importante, potremmo forse curare i nostri disagi umani, e in questo modo percepire in modo più chiaro l’universo. Se sapessimo che stiamo proiettando, potremmo prendere in considerazione e capire le distorsioni che noi stessi creiamo, e usare questa conoscenza per pianificare in modo cosciente un mondo migliore, in cui i problemi che causano le proiezioni non esistono.

Torniamo adesso alla nostra idea della Terra che si vede nella sua relazione con il Sole. Nella nostra società atomistica e individualistica, abbiamo cominciato a sminuire l’importanza delle relazioni, considerando il benessere della persona l’obiettivo principale delle interazioni e del processo sociale, come anche la ragione d’es-sere dell’individuo. Le terapie per la co-dipendenza e le famiglie disfunzionali sono molto seguite e ben accolte negli USA e producono sia denaro sia convalidazione sociale dei loro seguaci.

I nostri disagi rispetto ai rapporti umani dimostrano quanto essi siano importanti per noi. Le canzoni d’amo-re pullulano nei programmi radio, i racconti d’amore riempiono le riviste, gli scaffali delle librerie, le commedie cinematografiche. I rapporti sono realmente molto importanti per gli esseri umani: è (in parte) attraverso di essi che diventiamo umani. Solo che non sappiamo come coltivarli: non abbiamo molti buoni esempi. La mia ipotesi è che il migliore modello di rapporto che abbiamo sia quello tra la Terra e il Sole. Possiamo proiettare lì fuori i nostri problemi, poi vederli in modo più chiaro dentro di noi.

Ma perché non pensare alla questione tenendo conto di una maggiore intenzionalità? L'”Ipotesi di Gaia” considera la Terra come un essere vivente: noi siamo Lei che prende coscienza; la Terra sta prendendo coscienza della sua relazione con il Sole e della parte che lei ha in essa, della sua creatività nel prezioso miracolo della vita. Noi siamo forse la proiezione del suo problema. Gli umani svolgono il ruolo di amanti e di amati, di Sole e di Terra; e interiorizziamo questi ruoli nella coscienza e nel nostro essere oggetto d’attenzione (dando e ricevendo attenzione). Riceviamo forse le nostre cure o quelle degli altri così come la Terra illumina, usandole per la creatività, oppure le riflettiamo (come fa la Luna) in uno sterile gioco di specchi di chi è più luminoso, più grande, più caldo?

La fonte della vita è il Sole o la Terra? Come uomini e donne, noi li insceniamo: gli uomini sono attivi, i soli; le donne sono passive, le terre; questo è l’eterno stereotipo. Tuttavia, da un altro punto di vista, entrambi i ruoli sono creazioni della Terra. La Terra ha prodotto perciò coloro che recitano il Sole e coloro che recitano la Terra. L’inte-ra commedia è in effetti messa in scena dalla Terra.

È la Terra ad aver reso il Sole donatore di vita, ricevendo la luce creativamente; per quanto ne sappiamo, gli altri pianeti non hanno fatto lo stesso. Allo stesso modo, gli animali maschi producono miliardi di spermatozoi; se però non c’è l’utero o l’uovo femminile a incontrarli, la vita non si produce. I semi cadono dagli alberi o vengono trasportati dal vento ma, se non vengono accolti dalla Terra, rimangono senza vita; in ogni caso, gli spermatozoi e le uova, i semi e l’humus vengono tutti prodotti dalla Terra.

Come accade in molte delle nostre relazioni eterosessuali, sopravvalutiamo una persona, di solito maschio, e sottovalutiamo l’altra, di solito femmina. Una donna, per la sua creatività, attribuisce un’importanza solare al-l’uomo, e lui viene visto come fonte di vita, di reddito, di creatività. Ricevendo questa attenzione (come la Terra), l’uomo diventa creativo più attivamente e il valore che gli si attribuisce sembra così legittimato. L’intera società partecipa a un sistema, che privilegia un polo nella relazione e nasconde o ignora l’altro. Noi donne definiamo come definitori coloro che definiscono; poi nascondiamo il nostro ruolo attivo, e gli uomini sono felici di appropriarsi di questo credito.

Se stiamo svolgendo il ruolo della Terra, perché non dovremmo riconoscere il nostro/suo potere, creatività, le caratteristiche di dare vita e conferire valore? La solitudine, forse? Lei è così lontana da ogni altro pianeta o Sole. Il Sole è forse anch’esso vivo, ma su un piano di-verso? Forse la Terra non vuole rendersi conto che sta facendo tutto da sola? Noi esseri umani potremo mai amarla abbastanza? E lei potrà mai amarsi abbastanza per compensare il fatto che il Sole non è vivo? Ma forse il Sole è vivo, vivo come lo è la Terra e sullo stesso livello o su un livello diverso di realtà e solo.

La nostra attenzione imita il Sole, ma quando ci concentriamo su una stella, la stella è nella stessa posizione della Terra. Ed è lo stesso con lo spazio. La dimensione di ricettività che la circonda conforta la nostra Madre Terra e la conoscenza che abbiamo acquisito la mette in un determinato contesto, le dà una casa. La confusione provocata dall’esistenza di milioni di galassie si dissolve quando pensiamo che da qualche parte esisteranno sicuramente altri esseri viventi.

La Madre Terra, come ET, potrà forse essere in grado un giorno di telefonare a casa alle sue sorelle. Nel frat-tempo, dobbiamo conservare una speranza, imparare a vivere l’uno con l’altro e non rovinare questa squisita bellezza e armonia prima che lei conosca altra vita. Siamo forse tanto distruttivi per interpretare meglio il ruolo del Sole secondo la percezione che ne abbiamo, continuando a screditare il ruolo della Terra? Abbiamo forse creato un Dio patriarcale-Sole-maschio anche perché ci tenga compagnia, proiettando noi e il suo problema (di “lei”) al di là del sistema solare, verso l’universo?

Credo dovremmo accettare il fatto che non sappiamo ancora molto dell’universo. Abbiamo però un accesso immediato ai nostri apparati percettivi e al nostro contesto sociale. Dobbiamo far risplendere la nostra attenzione cosciente immediata sui nostri meccanismi psico-sociali, per scoprire perché stiamo vedendo ciò che stiamo vedendo. Esistono meccanismi di selezione sconosciuti che hanno origine nella nostra motivazione, che ci portano a cercare e a trovare alcune cose piuttosto che altre. Queste cose si ripercuotono poi sui contesti dai quali erano sorte le motivazioni, riconfermando gli stessi problemi che le avevano suscitate. Soltanto quando cureremo le nostre motivazioni questi meccanismi potranno funzionare in modo chiaro come dovrebbero, creando un allineamento tra i diversi tipi di realtà di cui facciamo parte.

Forse la nostra attenzione cosciente corrisponde al Sole, e il nostro subconscio corrisponde alla Terra, e questo per l’interiorizzazione di una polarizzazione sociale tra attivo e passivo. Ma il nostro lato terreno, come abbiamo detto, è solo apparentemente passivo: in realtà esso riceve creativamente, dando alla coscienza non solo un contenuto, ma anche un contesto e un valore; dà alla coscienza la sua potenzialità di sapere, come parte di un essere umano, dove stanno accadendo molte cose.

La coscienza è come la luce del Sole rifratta attraverso l’atmosfera. Essa può attraversare e toccare molte più cose di quanto sembri. Visto che gli umani sono prodotti sociali, per ognuno di noi c’è il contributo dei molti e del passato. La nostra coscienza solare non solo illumina molti aspetti di questo contributo l’uno dopo l’altro, ma viene anche da esso definita. Forse, come la Terra, e come le donne nei loro modi di pratica del dono, il nostro subconscio produce coscienza, senza però riconoscervi il proprio contributo. Così, sembra che la coscienza non provenga dalla Terra ma dal cielo.

Nel XX secolo la nostra conoscenza (e attraverso di noi la conoscenza che ha la Terra) del sistema solare, della galassia e del cosmo si è notevolmente accresciuta, mentre la conoscenza della natura della Terra e della sua relazione con il Sole non è ancora ben chiara. Allo stesso modo, nelle nostre relazioni umane non capiamo la relazione madre-figlio, di pratiche di cura uno-a-uno, prima di avventurarci nella relazione con i “molti”; non capiamo cosa succeda in casa prima di avventurarci nel mondo esterno. La relazione tra la Terra e il Sole, che ha prodotto tanta vita miracolosa, non è una relazione disfunzionale, il sistema solare non è una famiglia disfunzionale. Identificando il padre con il Sole, però, abbiamo riprodotto l’immagine sociale auto-similare mascolata dell’esemplare, sottovalutando l’attività e la creatività della “ricevente” femminile “passiva” e dei molti e dan-do invece eccessiva importanza all’intraprendenza del “donatore” maschio “attivo”.

Il bisogno è essenziale per il dono, poiché senza di esso il dono non è niente. Così, la Terra ha creato miriadi di bisogni che il Sole può soddisfare con la sua luce, che sarebbe altrimenti inutilizzata e arida. L’interazione tra questi bisogni ricrea le interazioni di dare-e-ricevere del Sole e della Terra. L’asimmetria è la chiave. Il Sole si limita a dare, mentre la Terra riceve e dà di nuovo, anche se si presume che non possa ridare al Sole, visto che il Sole è troppo lontano e si suppone che non possa ricevere. Dunque ciò che avviene è che molte delle relazioni di vita sono realmente immagini auto-similari della relazione tra la Terra e il Sole; sono giochi di ruolo, modi di inscenare il dare e il ricevere creativamente. Il bambino riceve le attenzioni amorose della madre; poi, crescendo, si mette attivamente in relazione con la madre, facendo a turno.

L’ameba s’imbatte in alcune parti di materia che può ricevere e usare creativamente, così come la Terra s’im-batte nella luce del Sole nel suo viaggio per lo spazio. Allo stesso modo il filo d’erba usa la luce del Sole per i suoi processi; il bruco trova attivamente il filo d’erba, questo raggio terrestre fatto di luce incorporata creativamente, e lo usa per i suoi processi; l’uccello, sulle sue zampe, più attive, trova il bruco.

Ma noi, e forse la Terra stessa (ha forse dei problemi di autostima?), attribuiamo più importanza al maschio, identificandolo con l'”uno” e con il Sole (sun) (il figlio, son), perché non consideriamo creativo il ricevente; e i bisogni vengono visti come mancanze, e non come ciò che è necessario per completare i doni.

Potremmo anche considerare che quasi tutte le relazioni di vita siano una metafora della relazione tra il Sole e la Terra: un’immensa varietà di riproduzioni della relazione asimmetrica di dare unilaterale e ricevere creativo e di nuovo dare (e lasciare fuori dal processo i sottoprodotti e gli scarti, che diventano poi i doni di un altro or-dine, o ordini, di vita). Tutta la vita può essere vista come un tentativo della Terra di entrare in comunicazione col Sole, per entrare in relazione con lei. Perché il Sole dia come in effetti dà, la Terra deve creare i bisogni che possano ricevere i doni, e cioè ricreare qualcosa nella sua stessa posizione (di Terra). Poi assume la posizione del Sole, dando per soddisfare i bisogni. Attraverso la vita, la Terra dice al Sole: “Questo è ciò che avviene tra me e te; questo è ciò che avviene”.

Tutto questo accade sulla superficie del pianeta, dove il Sole risplende, presente (un dono) alla sua “vista”. La vita nella sua varietà può essere vista come un’immensa proliferazione di immagini della relazione tra la Terra e il Sole, ciò che in termini umani può essere visto come un’immensa ricerca filosofica gioiosa su questa relazione; e, in termini umani, questa relazione si chiamerebbe amore. Forse è il tentativo della Terra di co-muni-care con esseri di un altro ordine, è la sua opera di gratitudine per quel calore che la accarezza nella profonda oscurità dello spazio, una ricerca sulle loro identità e relazioni reciproche.

Per noi umani è importante allinearci con questa relazione, non interpretarla male, come abbiamo fatto molto spesso a causa degli schemi di mascolazione, creati da alcune parti della nostra organizzazione sociale e del nostro linguaggio, che l’hanno oscurata. Non avendo potuto vedere la Terra dallo spazio, non abbiamo neanche saputo che lei c’era o che stava facendo qualcosa. Le eravamo troppo vicini; potevamo guardare solo verso l’esterno. Abbiamo pensato che fosse passiva, che si limitasse a ricevere la luce, così come abbiamo pensato che le donne fossero passive. Abbiamo offuscato il nostro dare, il suo dare, e abbiamo visto soltanto il Sole, l’esemplare-luce privilegiato, come donatore. Gli schemi patriarcali hanno generato immagini falliche auto-simila-ri di io ovunque, e si sono convalidati l’uno con l’altro.

Ci è sembrato che la Luna e il Sole competessero come dominatori dei cieli, e che entrambi fossero “uni” privilegiati per la loro ripartizione del tempo. La Luna è cambiata nelle sue fasi ed era i molti rispetto al Sole. Abbiamo pensato che l’idea di luce riflessa fosse l’iden-tità delle donne, della Luna. Abbiamo dimenticato che la grande Terra scura e creativa fosse l’immagine stessa della madre. Ma il riflesso che abbiamo attribuito alla Luna era in realtà quella parte dell’Ego che non dava, la meta-immagine falsa, statica, non-donante della vita e della relazione Terra-Sole.

Abbiamo considerato la Terra e il Sole, le donne e gli uomini, i figli e le madri, le cose e le parole, i cittadini e i presidenti, le merci e il denaro, relazionati reciprocamente in modo inattivo e non equivalente, ma catturati in un immaginario più o meno statico del riflesso. Lad-dove uno era reale, l’altro serviva solo a restituire quella realtà. La Luna, però, fornisce una sorta di meta-livello cosmico alla Terra, e dice semplicemente: “Il Sole risplende anche qua, sebbene io non lo riceva creativamente come la Terra. E anche l’oscurità e la luce sono qua”. La Luna ha influenzato il modo in cui la Terra ha sviluppato la vita e la coscienza. Il suo fascio luminoso stimola la nostra immaginazione. Essa sembra essere una sorta di aspetto auto-referenziale della Terra; il suo tocco leggero muove le nostre maree.

Per secoli, per gli umani, la Luna ha preso il posto della Terra quale “altro” del Sole, mentre in realtà la Terra era l’altro donatore-di-vita rispetto al Sole. Ci è sembrato che il riflesso della luce del Sole fosse opposto e complementare al dare attivo del Sole, mentre in realtà era il suo uso creativo nel dare la vita. Perciò, può sembrare che lo scambio, basato sul riflettere ciò che è stato dato, abbia onorato il Sole in modo più preciso, lo abbia migliorato.

Ciò che è stato dato è stato restituito attraverso un equivalente. Il riflesso ha convalidato lo scambio come modalità di vita, e gli schemi mascolati dell’Ego , della sopraffazione e della competizione sono sembrati modi per interpretare i ruoli attivo del Sole e passivo della Luna. Abbiamo perciò pensato che il Sole prendesse l’iniziativa rispetto alla Terra, ritenuta passiva. La Terra non restituisce soltanto un riflesso o un’immagine del Sole, ma molte immagini viventi della sua relazione con il Sole, molte immagini del Sole e di sé e della loro relazione reciproca. Ci sono poi anche le immagini della Luna, i riflessi del rifles-so del creare un’immagine, l’immaginazione.

Il fatto che nel cielo esistano due corpi celesti ci ha suggerito l’importanza della duplice relazione, anche quando pensavamo che la Terra fosse piatta, perché li abbiamo visti nel cielo e li abbiamo guardati nei termini delle nostre relazioni di genere, che erano già immagini di vita creata dalla Terra della relazione Terra-Sole. Abbiamo pensato che la relazione Sole-Luna fosse la stessa della relazione Sole-Terra e abbiamo identificato la Luna con le donne, come “luci minori”, sconfitte nella competizione per essere il più luminoso. Forse, quando abbiamo cominciato a conoscere le dimensioni relative della Terra, del Sole e della Luna, abbiamo cominciato a pensare alla Terra e alla Luna come figlie e al Sole come padre. Per questo l’immagine della donna-figlia si è sovrapposta a quella della donna della creatività, nascondendola.

Non solo gli individui sono entrati in queste relazioni e le hanno interpretate, ma diversi tipi e ordini di immagini viventi delle relazioni si sono dovuti mettere in rap-porto l’uno con l’altro. Può sembrare una questione complessa, ma in realtà è abbastanza semplice da seguire se vediamo il Sole come il donatore unilaterale, la Luna come colei che riflette, e la Terra come donatrice e ricevente, ripetendo (incorporando piuttosto che riflettendo) la relazione. (Un meta-livello completo non sa-rebbe fatto del semplice riflesso dell’altro, ma del rifles-so della relazione di dare e ricevere con l’altro, includendo l’io, e del riflesso della relazione di riflesso.)

Se noi siamo la Terra, che prende coscienza di sé, abbiamo seguito delle concezioni sbagliate dovute alla nostra incapacità di vederci nel nostro contesto reale (e quello della Terra) riguardante la Luna e il Sole. Se gli umani sono immagini della cosmologia più vicina a noi, è necessario che la capiamo e ci allineiamo con essa. Allinearci con le concezioni sbagliate ci sta affliggendo e sta portando la nostra Madre creativa alla distruzione.

Se il principio della vita è nella creatività dei bisogni per usare i doni, non dobbiamo lasciare che i bisogni e gli esseri che li hanno muoiano perché noi stiamo riflettendo o cercando di agire secondo la nostra idea di Sole, cadendo negli schemi di mascolazione creati dalla nostra società. I bisogni formano una sorta di gravità, verso la quale devono scorrere i nostri doni; come l’acqua, il do-no liquido che scorre verso il centro della gravità, e la pioggia, come una cascata di luce solare convertita sulle piante assetate. Il vento soffia dalle zone di alta pressione a quelle di bassa pressione; dare ai bisogni è la risposta che soffia nel vento (“The answer that is blowing in the wind”).

L’errata interpretazione della nostra sessualità si estende e va a combaciare con l’errata interpretazione della nostra cosmologia. Consideriamo la nostra Terra in qualche modo mancante, invece che come la grande fonte di dare e ricevere quale è. In effetti, ignorando la creatività, sopravvalutiamo l'”autonomia” del Sole, che, come abbiamo visto nelle immagini della Luna, non hacreato niente “autonomamente”. È stato invece il Sole in relazione alla Terra a essere creativo, e la Terra in relazione al Sole. A causa della presenza preminente del Sole, per la sua visibilità, e per quella della Luna, la Terra è stata ritenuta “minore” perché non dava luce (dava però il fuoco, che, come le parole, può essere dato via pur mantenendolo). Tutto questo è in linea (e in risonanza) con lo schema sessuale e sociale degli uomini come “uni” attivi e le donne come “molti” passivi.

Forse la Terra stessa si è sentita incapace nel confronto con il Sole o con la Luna, ed estranea e solitaria, così lontana da altri pianeti e stelle. Quali suoi figli, gli umani hanno contribuito a questo sentimento. Non solo l’abbiamo ignorata e interpretata male, attribuendo va-lore a tutto tranne che a lei, incluso a noi stessi, ma abbiamo anche, con la stessa mentalità che ci ha portato nello spazio e ci ha infine permesso di vederla dal di fuori, rovinato e degradato molte delle sue principali creazioni più delicate.

Ci consideriamo i figli dell’universo, e speriamo di vedere la vita sui pianeti di Aldebaran, se soltanto esistesse. Siamo pronti a spendere bilioni di dollari in programmi spaziali con quello scopo ultimo; e allo stesso tempo diamo talmente poca importanza all’incredibile varietà di insetti delle foreste pluviali sulla Terra che lasciamo che si estinguano senza muovere un dito per proteggerli. Dobbiamo imparare ad attribuire valore alla nostra Madre creativa, sia alle nostre madri umane sia alla nostra Madre Terra. Dobbiamo vedere i bisogni non come mancanze, rivalutare la vagina simbolica quale il grande luogo creativo nascosto, dove la vita cresce e si perpetua, e dobbiamo capire che il tipo di creatività a un solo colpo che il fallo simbolico rappresenta si basa sulla negazione del valore e del lavoro femminile in di-venire. Dobbiamo praticare tutti le cure nei confronti di tutti e della Terra; dobbiamo restituire un posto d’onore ai bisogni e soddisfarli.

In quanto coscienza della Terra dobbiamo essere la sua autostima, lasciando che il nostro amore scorra come l’acqua verso il centro della gravità. Lei sta soffrendo, così come molta della sua gente e delle sue creature. Dobbiamo agire per il suo bene. C’è tanta mancanza di compassione nel nostro aspirare allo spazio esterno, nelnon badare a questo miracolo in cui viviamo. È soltanto la nostra predisposizione mentale patriarcale, il nostro errato allineamento con la relazione Sole-Terra, che ci fa annoiare del presente e ci rende ciechi di fronte al Giardino dell’Eden, portandoci a essere dannosi l’uno per l’altro e a rovinare la Terra. La gente povera in tutto il mondo è costretta a interpretare il ruolo della madre negata e svuotata, sfruttata, sprecata e disprezzata; l’im-magine auto-similare della Madre Terra che viene distrutta da un patriarcato il cui figlio luminoso e sano esce nello spazio con la sua astronave fallica per “fecondare” altri pianeti.

Dobbiamo prendere atto della gravità della situazione e rivolgere il nostro amore e il nostro denaro verso i bisogni. In questo modo, potremo seguire il comandamento della Madre Terra: “Praticate le cure reciprocamente”, imitando la sua evidente relazione cosmica creativa. Possiamo liberarci e liberarla dall’infatuazione del riflesso e dell’accrescimento dell’esemplare.

La molteplicità che la Terra ha creato con la vita compete con la molteplicità della galassia. Dobbiamo cominciare a dare valore alle relazioni “molti-a-molti”, che gli Ego orientati-verso-l’altro possono promuovere. Dobbiamo innanzitutto rivolgere la nostra attenzione al mondo in cui viviamo, onorare e benedire la nostra Madre, soddisfare i suoi bisogni, i bisogni dei popoli della nostra Terra.

Forse è vero che siamo capaci di raccontare ciò che abbiamo appreso su un certo livello e di sentire su un altro livello. Io sono stata spesso lontana dalle persone che amavo, e ho amato una persona unilateralmente per molti anni. Non ricevendo alcuna risposta alla mia co-muni-cazione, sono diventata più creativa, portando avanti il mio dare verso dei progetti di cambiamento sociale. So come devono sentirsi la Terra e il Sole. Io sono in linea con una parte dell’immagine, poi con un’altra. Quando l’amore umano è contraccambiato, possiamo senz’altro fare a turno nell’essere Sole e Luna l’uno per l’altro.

Vorrei quindi suggerire che, liberandoci dalla mascolazione, facciamo ritorno alle nostre radici nella nostra cosmologia. Forse il termine “um”, che unirebbe nell’in-fanzia i maschi e le femmine con chi si prende cura di loro, chi li nutre, e l’uno con l’altro, può essere sostituito da adulti non con “donna” e “uomo”, ma con “Terra” e “Sole”. Non può che essere una cosa curativa, quando alla Terra venga restituito il posto che le spetta, quale fonte creativa di esseri umani sia maschi sia femmine, e il Sole quale donatore unilaterale d’energia. Potremmo forse rEgo lare la nostra condotta su quella di chi oggi ci considera androgeni, contenenti sia il maschio sia la femmina, attivi e passivi, e chiamarci “terre” nel momento in cui stiamo ricevendo creativamente e “soli” quando stiamo dando unilateralmente (in entrambi i casi, avremmo già slegato coscientemente i nostri io dalla struttura uno-molti del concetto e dalle distorsioni della definizione di genere).

Dovremmo cercare di co-municare con la Terra, non con le stelle. Se Gaia è viva, ha senz’altro un linguaggio.È la dea che ci parla attraverso la sincronicità e le pratiche di cura, oltre che in altri modi. Come possiamo parlarle? È un essere di un altro ordine. Siamo come cellule all’interno del corpo che cercano di comunicare con l’intero corpo. Quali doni possiamo dare? Innanzitutto, credo che possiamo darle il dono della pace tra tutti noi, curando le nostre società. E questo ci aiuterebbe a darle il dono del nostro rispetto per la sua bellezza e creatività, mettendo fine all’inquinamento, curando la devastazione che abbiamo causato; con i nostri doni, potremmo trovare la nostra lingua Madre comune.

Dal momento che tutta la nostra attenzione si è concentrata sull'”uno”, i molti sono rimasti nell’oscurità, sconosciuti e non riconosciuti, come stelle di altre galassie, dove sembrerebbe trovarsi ogni risposta. Le stelle sono così tante, come le cellule del nostro cervello. Que-ste ultime sono forse immagini delle stelle? Le stelle so-no forse i neuroni della Terra, ma al di fuori di essa, come noi ma al rovescio? La Terra sarebbe un minuscolo corpo dentro un immenso cervello di stelle.

Stamattina svegliandomi ho visto le stelle; mi sono sembrate tantissime. Questo è il problema “uno-molti”: la Terra si sta ritrovando all’interno di questo enorme spiegamento di altri prima di sapere cos’è lei, o cosa so-no il Sole e la Luna; e per noi la situazione è simile, con cinque miliardi e mezzo di persone sulla Terra. Noi umani possiamo formare gruppi per relazionarci con altri gruppi più grandi, ma la Terra può formare un gruppo con altri pianeti? I pianeti viventi non sono troppo lontani? La Terra è forse l’unica figlia vivente del Sole? E gli altri pianeti sono vivi, anche se non c’è vita su di essi? La Terra sta forse cercando di raggiungerli attraverso i nostri viaggi spaziali? Dobbiamo formare una co-muni-tà con lei, qui; dobbiamo confortarla per il suo es-sere sola.

Capitolo ventitreesimo: Dopo le parole: la teoria in pratica

Capitolo ventitreesimo: Dopo le parole: la teoria in pratica

Ci sono molti modi diversi di creare una transizione verso un cambiamento di paradigma. Vedremmo ad esempio effetti immediati e di lunga portata se le istituzioni del Primo Mondo per-donassero il debito del “Terzo Mondo” (che in realtà è già tornato indietro molte volte al “Primo Mondo”); potremmo cominciare per-do-nando gli interessi. Potremmo, oltre a questo primo pas-so positivo, iniziare una co-municazione materiale con il “Terzo Mondo” in modo rispettoso e per una vita migliore; potremmo poi dare denaro in abbondanza ai paesi dell’ex Unione Sovietica, riconoscendo che la nostra tendenza capitalistica al saccheggio non ha permesso loro di creare una società migliore ma li ha soltanto ridotti a una povertà estrema. Cosa ancora più importante, potremmo porre fine allo spreco delle ricchezze mondiali in produzione di armi e in apparati militari, e usare invece le risorse per un’economia di pratiche di cura.

Negli USA potremmo trasformare l’industria e la mentalità della detenzione punitiva in una comprensione delle cause sociali del crimine e nel tentativo di dare ai figli e ai giovani una vita che valga la pena di essere vissuta; potremmo riconoscere il bisogno e il diritto umano di tutti di essere grati per una vita buona e felice, e il diritto di avere qualcosa da dare; potremmo porre fine ad alcuni dei terribili torti che vengono commessi, come il traffico sessuale di donne e bambini; potremmo riconoscere che quasi tutti gli immigranti che si spostano dal Sud al Nord stanno solo seguendo il cammino delle risorse che il Nord sta prosciugando dai loro paesi sotto forma di doni non retribuiti; e porre fine a questo prosciugamento, accogliendo le nostre sorelle e fratelli (se non spendessimo il denaro in armamenti ce ne sarebbe moltissimo per tutti); potremmo porre fine alla devastazione dell’ambiente, che dovrebbe esse-re considerato un dono per i nostri figli e per i figli dei nostri figli; potremmo eleggere molte più donne con valori compassionevoli nei servizi pubblici. Progredire in qualunque di questi settori – e ne esistono molti altri – avrebbe ripercussioni positive ovunque e metterebbe in evidenza i valori del paradigma del dono. Possiamo cominciare a muoverci verso uno spostamento di paradigma riconoscendo il dare che stiamo già praticando e rifiutandoci di dare valore al sistema basato sullo scambio; possiamo cominciare a praticare il dare in via sperimentale nelle istituzioni politiche e sociali, in modo che abbia un effetto moltiplicatore e che non ci porti all’autodistruzione.

Per quanto mi riguarda, uno degli effetti positivi della teoria è stato liberarmi dalle pressioni psicologiche e sociali che m’impedivano di dare ai bisogni al di fuori della famiglia, e credo che l’aver assunto un ruolo di donatrice attivista mi abbia aiutato a curare alcuni dei problemi psicologici contro cui mi stavo battendo. Oggi vedo molto più chiaramente quanta pratica del dono si sta svolgendo nel mondo in ogni momento, e sono convinta che la pratica del dono sia il normale comportamento umano. Le pratiche di cura di ognuno di noi vengono bloccate dallo scambio e ostacolate dalla penuria, ma anche dai valori patriarcali, che interpretano il dare come scambio, lo accantonano come debole e inefficace oppure gli danno un’enfasi eccessiva tacciandolo di sentimentalismo. Individuare la pratica del dono nel linguaggio ci permette di considerarla come ciò che ci rende umani. Io mi auguro che affermando il dare come la modalità umana promuoverà la sua pratica cosciente.

Sfortunatamente, dare per soddisfare i bisogni degli individui non modifica di fatto il sistema sociale che crea i bisogni. Quando avremo cambiato il sistema, dare per soddisfare i bisogni sul livello individuale ma anche su tutti gli altri livelli sarà il nostro principio guida. Al momento c’è un enorme bisogno di risorse da dedicare al cambiamento sociale; e tutti noi dobbiamo dare sul livello del cambiamento sia individuale sia sociale custodendo allo stesso tempo le nostre diverse energie per evitare di esaurirci mentre stiamo ancora vivendo nel paradigma dello scambio.

Il fatto che gli stessi donatori nascondano il loro dare è in parte dovuto all’idea che possano dare per ottenere il dominio dell’Ego necessario alla mascolazione. La contraddizione logica in questi casi di “altruismo orien-tato-verso-l’Ego” getta dei dubbi sull’altruismo in sé, facendolo sembrare inesistente. Chi è coinvolto nell’inte-razione del dare e ricevere può superare tale contraddizione sviluppando la fiducia radicale e il perdono (forgiveness) che sono possibili nel movimento femminista per il cambiamento sociale. Un altro motivo per cui la gente non dà in modo visibile è che le religioni e i precettori della morale promuovono il dare e il sacrificio nascosti in quanto moralmente superiori. Anche se con questa tattica si può forse sfuggire alla trappola del dominio dell’Ego, di fatto essa non permette che il model-lo diventi visibile e che possa avere ampie ripercussioni.

Moltissimi dei disagi psicologici sono sorti intorno al dare e ricevere, forse perché nella maggior parte dei casi esso è profondamente connesso all’infanzia ed è stato comunque bloccato e stroncato. Le nostre reazioni interne rispetto alla questione sono estreme e non vengono studiate, le nostre difese e i nostri disagi sono immediati. Ci sembra più facile avere a che fare con lo scam-bio, che appare più rispettoso, più “fico”. Le nostre reazioni psicologiche convalidano un abito mentale del dare “appropriato” – un dare che non raggiunga l’eccesso -e perciò, ovviamente, nulla cambia in concreto.

Come aspiranti donatori esitiamo seguendo una linea “politicamente corretta” in una società che sta devastando il pianeta e creando quotidianamente la fame e la morte di milioni di persone che vivono “altrove”. La nostra immagine è salva al prezzo della nostra efficienza, e l’impulso negativo dello status quo prevale. Chi è ancora sensibile alle sofferenze dei molti e alla malattia del sistema viene colto dalla disperazione perché non vede l’aspetto della vita totalmente basato sul dono che continua a esistere, o le tracce di cambiamento sociale che so-no concrete e presenti. Le religioni, le corporazioni e i governi cooptano la pratica del dono, facendola apparire come un’altra manovra mascolata, spesso uno strumento dell’avidità e della corruzione. Nel migliore dei casi, sembra esserci un dovere civile di “restituire” alla comunità, entro i parametri prestabiliti del sistema.

Considerato tutto ciò, io ho deciso di praticare il dare doni per il cambiamento sociale in modo visibile, creando le organizzazioni cui ho accennato. Ho creato e appoggiato progetti per il cambiamento sociale, usando lo scambio – il lavoro stipendiato – per cambiare il sistema verso la pratica del dono; la Fondazione e le Femministe per una società compassionevole sono soluzioni ibride di questo tipo. Ho poi usato il denaro che ho ereditato anche per finanziare progetti progressisti e femministi già esistenti per il cambiamento sociale. Per diversi anni sono stata consigliata da mia cugina, Sissy Farenthold, che aveva già fatto strada come leader politica femminista e attivista, ed era più “pratica del mestiere”; Sissy mi ha aiutato a trovare dei gruppi ai quali potessi dare. Ho poi acquisito un luogo fisico (terra ed edifici) dove si sono avviati dei progetti guidati da donne; ho anche avviato o sostenuto dei progetti attivisti ed educativi, assumendo delle donne per gestirli e portarli avanti. Alcune di queste donne avevano già intrapreso dei progetti per conto loro o li hanno iniziati in seguito, con o senza la mia collaborazione e appoggio. Adesso sto scrivendo un libro sulla mia vita, in cui vorrei anche parlare dei miei incontri e collaborazioni con organizzazioni importanti quali Dawne, Sisterhood Is Global, Wedo, Feminist Press, Feminist University of Norway, CoMadres de El Salvador, Resourceful Women e molte altre.

Mi sono cimentata con le contraddizioni inerenti alla pratica del dono per cambiare il sistema, che mi hanno dato i mezzi per vivere; e anche con le contraddizioni derivanti dall’uso dello scambio – dare salari alle donne per cambiare il sistema dello scambio verso la praticadel dono. Ho dovuto seguire il principio di non dare agli individui per il loro profitto personale, perché era essenziale destinare il denaro ai progetti per il cambiamento sociale. C’è forse chi ha pensato ad altri modi di mettere in pratica la teoria; questo è ciò che ho pensato di fare io, grazie anche alla Dea che mi ha donato il tempo opportuno e la buona sorte.

In alcune occasioni ho avuto qualche disaccordo con le donne di FFACS, o ci sono stati degli screzi tra loro. Ci siamo confrontate in lunghe discussioni talvolta penose, ma le abbiamo superate grazie alla nostra amicizia e integrità femminista. Ho sempre cercato di fare della Fondazione un luogo più diversificato possibile, e in effetti hanno collaborato tra loro donne di colore e donne bianche, anziane e giovani, gay e non gay, donne statunitensi e donne di altri paesi; credo sia diventata una specie di nicchia ambientale per la pace, in cui si possono ascoltare miriadi di voci e dove risalta il pensiero dei molti. Sono molto grata alle donne che si sono impegnate con FFACS nel corso degli anni e mi sento molto fortunata per essere stata insieme a loro. Ogni mercoledì lo staff si riunisce per ascoltare le relazioni di ognuna di noi: l’incredibile varietà di informazioni ed esperienze, di impegni e di azioni ingegnose e coraggiose conferma e ispira la nostra sorellanza, e dà speranza persino al visitatore più stremato.

Sono sorti talmente tanti bisogni sociali generali a causa della pratica psicotica del patriarcato, che gli attivisti per il cambiamento sociale sono impegnatissimi nell’ani-mo e nella pratica. La verità è che ogni bisogno è legato a tutti gli altri bisogni: i bisogni dell’ambiente sono legati ai bisogni umani, la fame alla militarizzazione, il rispetto per le ragazze madri alla pace nel mondo, la violenza domestica alla violenza razziale e a quella internazionale. Tirando un filo del groviglio dei problemi si smuovono tutti gli altri fili. Soddisfare qualsiasi bisogno di cambiamento sociale – “facendo una differenza” come spesso si dice – dà a ognuno la possibilità di praticare il paradigma del dono in modo visibile e intelligente su un livello sociale generale.

Il modello delle donne che danno per soddisfare i bisogni sociali, che danno tempo, intelligenza, creatività, impegno e denaro, dimostra il potenziale del paradigma del dono generalizzato come soluzione all’insieme di tutti i problemi causati dalla pratica del paradigma dello scambio. Il paradigma del dono praticato in modo visibile dalle donne, per un cambiamento sociale, può avere effetti di lunga portata. Esistono oggi diversi progetti attivisti negli USA e in altri paesi, ma molti di essi continua-no a operare secondo le strutture patriarcali e perpetuano perciò quegli stessi problemi cui si stanno indirizzando. I programmi contro la violenza negli USA cercano spesso di cambiare l’individuo o di far applicare alcune riforme legislative specifiche, senza cambiare la società nell’insieme. Il legame tra la violenza domestica e quella internazionale, ad esempio, viene spesso ignorato. Ciononostante, tutte le persone coinvolte oggi in movimenti contro la violenza domestica e sessuale, per la giustizia sociale, per la pace e per i diritti umani, per porre fine al-la fame, alla guerra, al razzismo e ai problemi dei senzatetto, come anche le persone impegnate nella cura della tossicodipendenza e dei problemi psicologici dovuti alla violenza patriarcale, si stanno spostando verso il paradigma del dono, che siano uomini o donne, che lo sappiano o meno. Io credo che in questa transizione sia importante promuovere la leadership delle donne, perché originariamente esse non sono mascolate, e hanno un modello che è già molto diverso da quello dell'”uno privilegiato”.

Nel 1997 la Fondazione per una società compassionevole ha compiuto dieci anni, anche se diversi progetti sono nati molto prima. Il Stonehaven Ranch è un ritiro vicino San Marcos, in Texas, che è diventato operativo nel 1984; ogni fine settimana è aperto ai ritiri di gruppi pacifisti e femministi, che vengono ospitati gratis o a costi minimi. Nel corso degli anni letteralmente migliaia di persone che lavorano per il cambiamento sociale sono stati “nutriti” in questo ambiente diretto dalle donne. Oggi lo dirige Margie First, “nutrendo chi nutre”. Altri progetti avviati negli anni Ottanta, come la Austin Women Peace House, sono durati diversi anni e sono poi si sono chiusi per una ragione o per l’altra. Un programma settimanale della Austin Community Television, Let the People Speak (“Lasciate parlare il popolo”), condotto da Trella Laughlin, è stata una delle nostre attività dal 1985 al 1994; si sono mandati in onda anche diversi altri programmi regolari sulla rete televisiva locale, tra cui la mia trasmissione Feminist Values, un programma di Sally Jacques, Arts and Activism, e un altro di Frieda Werden, Women’s News Hour.

Praticare il dono nell’ambito dell’economia dello scambio esaurisce la donatrice che agisce da sola. E, a parte qualche contributo relativamente piccolo, io sono l’unica persona che dà denaro all’organizzazione (anche se le altre donne danno tempo, energia e inventiva); perciò le mie risorse finanziarie si stanno esaurendo, e io ho dovuto interrompere il programma di donazione attivo dal 1981 al 1994 e alcuni altri progetti. Il Grassroots Peace Organizations Building aveva ospitato gli uffici della Fondazione offrendo alcuni spazi anche agli uffici di altri gruppi per la pace che includevano sia uomini sia donne. Situato sulla strada principale del centro di Austin, questo piccolo edificio è stato un avamposto per il cambiamento sociale nel flusso della “mainstream”; ma nel 1996 ho dovuto venderlo per continuare a mantenere la Fondazione. Il nostro secondo centro di ritiro, chiamato Alma de Mujer, una bella costruzione sul lago Travis, ha fatto parte della Fondazione dal 1988 al 1996, quando l’ho donato alla Indigenous Women’s Network; oggi viene ancora gestito con successo dalla scultrice indigena Marsha Gomez, con l’aiuto di Esther Martinez.

Nel 1985 sono riuscita a finanziare e a organizzare, insieme a un gruppo che ho contribuito a far nascere, The Feminist International for Peace and Food, la Peace Tent (“tenda per la pace”) presso la UN Decada delle Donne, Conferenza di Nairobi. La tenda ha avuto un grande successo, fornendo una spazio sicuro per il dibattito e la discussione tra le donne di paesi in guerra tra loro; sono giunte migliaia di donne per partecipare agli eventi. Due delle donne che hanno aiutato a organizzare la tenda, la tedesca Ellen Diederich e la cantante afro-te-desca Fasia Jansen, hanno lavorato molti anni con la Fondazione, organizzando una carovana per la pace in Unione Sovietica (prima della caduta del muro di Berlino) e creando in seguito il negozio Four Directions (un tentativo di cause related marketing). Molti altri gruppi hanno collaborato alla Tenda della Pace, incluso il WILPF e WIDF; è stato un modello riuscito di dialogo tra donne, da allora imitato in molte altre occasioni.

Anche negli USA sono state organizzate delle Carovane per la pace, in cui alcune donne attraversavano città e paesi per parlare dell’incontro di Nairobi. La quacchera statunitense Alice Wiser e la tedesca Gertrude Kauderer le hanno coordinate per diversi anni tutte le estati. Nel frattempo, abbiamo svolto un’importante attività di sostegno ai movimenti di autodeterminazione centroamericani, inviando a El Salvador varie delegazioni che indagassero sugli abusi ai diritti umani, sulle attività degli squadroni della morte e sul coinvolgimento del governo USA.

Ellen e Fasia hanno organizzato un tour delle madri salvadoregne dei desaparecidos in Europa, che è stato utile per divulgare informazioni; la Fondazione ha inviato una delegazione di procuratori generali USA in Centro America per indagare sui fatti (anch’io facevo parte della delegazione); ho appoggiato molte donne del Sud globale a viaggiare negli USA, per raccontare la realtà dei loro paesi (attraverso il Women’s Project per il “Terzo Mondo” dell’Istituto per gli Studi di Politica diretto dalla cilena Isabel Letelier).

Tutte queste attività sono culminate in due incontri tra donne leader statunitensi e le commandantes donne dell’FMLN di El Salvador. Durante questi incontri amichevoli è emerso abbastanza chiaramente che i valori delle donne potrebbero superare ogni guerra e antagonismo. Abbiamo parlato dei nostri figli e del futuro; abbiamo avuto delle discussioni politiche serie, ma abbiamo anche ballato e cantato insieme.

Mi sono impegnata in attività a lungo termine per le donne del Sud globale e del femminismo internazionale. Ho appoggiato le donne di gruppi e conferenze internazionali e ho collaborato alle pubblicazioni e alle reti informatiche. Nel corso degli anni, ho sostenuto un certo numero di progetti nel Sud e alcuni progetti di donne del Sud che vivono nel Nord. Al momento l’attivista filippina Charito Basa fa parte dello staff, lavorando con le donne immigrate che vivono in Europa.

Credo che i mass media siano un mezzo importante per trasmettere al grande pubblico il punto di vista delle donne. Nel 1991 ho avviato FIRE (Feminist International Radio Endeavor), una trasmissione quotidiana della du-rata di due ore presentata da una prospettiva femminista, un’ora in inglese e una in spagnolo, su Radio for Peace International, una stazione a onde corte della Costa Rica. Le promotrici delle trasmissioni sono Maria Suarez, di Puerto Rico, e la cilena Katarina Anfossi. Si possono sen-tire i programmi ora sul sito internet www.fire.or.cr.

Nel 1986, Frieda Werden e Katherine Davenport han-no creato da sole il WINGS, il Women’s International News Gathering Service. Dopo la morte di Katherine Davenport, Frieda è tornata ad Austin e si è unita allo staff della Fondazione nel 1992. Da allora ha continuato a produrre trasmissioni WINGS settimanalmente, con la collaborazione di diverse volontarie che ha formato personal-mente. Frieda dirige anche dei corsi di formazione radiofonici presso il WATER, il Women’s Access to Electronics Resources, una struttura di Austin creata e curata dal videografo Fern Hill. dove le donne ricevono gratuitamente corsi di formazione video, radio e computer. Intorno a WATER si è sviluppata un’ampia comunità di donne, che usano le sue risorse e offrono volontariamente molte ore-donne. Un impegno collaborativo particolarmente entusiasmante è l’International Women’s Day Media Festival, un evento annuale multimediale della durata di 24 ore, allestito unicamente da donne e che coinvolge diverse altre strutture mediatiche in tutta la città.

Alla frontiera tra Messico e Texas esiste un centro e museo di risorse indigene aperto al pubblico, la Casa de Colores, di cui si occupa Helga Garcia Garza: si promuovono festival di danza che riuniscono giovani e anziani; medicina e cure tradizionali si uniscono alle antiche tradizioni spirituali dei popoli indigeni degli USA e del Messico. Questi incontri, insieme al museo di arte e artefatti, permettono agli abitanti del Nord e del Sud del mondo di ricongiungersi con la propria eredità culturale.

Parte dell’impegno volto al cambiamento dei valori confluisce nel movimento per una spiritualità alternativa, in particolare il Goddess Movement, e nel sostegno alle tradizioni spirituali dei popoli indigeni basate sul contatto con la terra. Uno dei programmi in corso è il Stonehaven Goddess Program, organizzato dall’attivista spirituale Pat Cuney, attraverso il quale molti scrittori e insegnanti del Goddess Movement hanno svolto la loro attività.

Io ho costruito un tempio alla dea egizia Sekhmet nel deserto del Nevada, accanto a un sito di test nucleari, per onorare la nascita delle mie figlie e prendere posizione contro il nucleare dal punto di vista della spiritualità delle donne. La statua di Marsha Gomez della dea dalla testa di leone ha una targa che dice: “Possano le donne essere tanto forti quanto un leone nel dare alla luce il futuro”; con la statua Madre del Mundo, anch’essa di Marsha Gomez, condivido questo spazio sacro. La sacerdotessa wicca Patricia Pearlman si occupa del tempio e accoglie chi viene a meditare, chi a protestare contro il nucleare e chi a celebrare i misteri. Ho restituito i venti acri di terra su cui è costruito il tempio agli shoshone occidentali, proprietari originari dell’intera zona.

Una preoccupazione specifica riguarda i danni all’am-biente e alla salute dovuti alle radiazioni nucleari. Le donne che lavorano in un certo ambito dell’organizzazione (più direttamente politico, non deducibile dalle tasse), le Femministe per una società compassionevole, hanno creato programmi eccellenti ed efficaci per opporsi al progetto di una discarica di scorie nucleari nel West Texas, nel piccolo centro di Sierra Blanca al confine col Messico. Erin Rogers ha svolto un’efficace attività organizzativa contro la discarica e di coordinamento con altri gruppi attivisti.

Susan Lee Solar ha creato il Peace Caravan, un museo itinerante anti-nucleare, e viaggia di paese in paese per discutere della questione del nucleare; il trasporto delle scorie nucleari è molto pericoloso, e il museo itinerante informa efficacemente la gente lungo il cammino. La Fondazione si è anche impegnata in indagini sulla salute nei pressi delle ex basi militari per rivelare la presenza di residui nucleari e di rifiuti tossici e studiarne gli effetti sulla popolazione. Yana Bland, che ha creato tra le altre cose l’Associazione di donne dell’area mediterranea con il sostegno della Fondazione, ha condotto un’indagine nei pressi della base aerea militare di Kelly a San Antonio, in Texas; si sono avviate indagini sulla salute anche presso le basi di Clark e di Subic nelle Filippine.

È difficile descrivere in così poco spazio tutti i progetti delle diverse organizzazioni. Abbiamo organizzato di recente una serie di conferenze: in una di esse, su “Valori familiari femministi”, Angela Davis, Maria Jiménez, Gloria Steinem e Mililani Trask hanno parlato davanti a duemila persone; una seconda conferenza, “Femminismo e fondamentalismo”, ha riunito attivisti e pensatori di diverse tradizioni per discutere della religione patriarcale da un punto di vista femminista; Mahnaz Afkami, Marta Benevides, Yvonne Deutsch e Robin Morgan hanno illustrato il loro pensiero insieme a una commissione locale di cui faceva parte l’attivista Cecile Richards.

Ogni anno si riunisce una rete di donne che si battono contro il ciclo del nucleare. Nel corso di ogni nostra attività, prendiamo atto del legame esistente tra le diverse questioni, in particolare lo stretto rapporto tra la spesa militare, la creazione della povertà e il degrado del-l’ambiente. Dopo la vendita del Peace Building abbiamo trasferito i nostri uffici in un edificio più tradizionale, dove lavora un nucleo di speciali coordinatori di progetto, tra cui Pat Cuney, Sally Jacques, Suze Kemper, Maria Limón, Sue MacNichol e Doll Mathis. Gli uffici della Fondazione e dell’amministrazione delle Femministe so-no gestiti da San Juanita Alcalá, Rose Corales e Nancy Wilson; la nostra risoluta ragioniera è Mary Nell Mathis.

Potete anche scrivere a me direttamente, allo stesso indirizzo o a genvau@aol.com; m’interessa molto conoscere la vostra opinione. Il nostro sito web è www.gift-economy.com

Tutte queste attività, oltre a diverse altre su cui non mi dilungo, sono state un tentativo di praticare il paradigma del dono su diversi livelli e ambiti della “realtà” dai quali generalmente rimane esclusa. La Fondazione è cresciuta in modo organico con molti risvolti diversi; come la vita, essa è confusa e tumultuosa, pratica le cure e risveglia le coscienze. Esistono tante cose e teorie fatte dall’uomo, che sono come la plastica, con le loro mole-cole tutte perfettamente allineate, o come le città, con le loro case ben disposte in interminabili file tutte uguali.

Per_donare_Page_498_Image_0001 Mettere in pratica una teoria significa che essa deve entrare nelle menti al di là delle contraddizioni e delle incomprensioni, al di là dello scetticismo e delle diverse disposizioni, per poter crescere, fiorire e dare frutti in molti modi diversi. Il fatto che io stia pubblicando questo libro solo adesso, dopo molti anni di pratica, è una delle difficoltà: mi sono limitata a illustrare la teoria verbalmente e, forse, non sempre in modo del tutto convincente; ho potuto correre questo rischio perché ritengo che, per la nostra socializzazione alle pratiche di cura, tutte (o quasi tutte) le donne stiano già operando secondo i valori del paradigma del dono.

Questi valori sono tuttavia spesso sepolti sotto lo strato di credenze del paradigma dello scambio. Le contraddizioni proprie di ogni donna vengono giustificate in un modo o in un altro, e noi impariamo a vivere nel patriarcato rimanendo inconsapevoli dei nostri valori, o relegandoli all’ambito delle emozioni. La Fondazione per una società compassionevole e le Femministe per una società compassionevole, oltre a tutti i servizi che hanno svolto e ai cambiamenti che hanno potuto promuovere, sono organizzazioni per una presa di coscienza. La loro esistenza altera la re-altà, soddisfacendo il bisogno di avere un esempio del dare esterno praticato dalle donne che possa convalidare il donatore che è dentro ognuno di noi, dando al paradigma del dono la dignità che gli spetta, perché venga riconosciuto come il principio attraverso cui l’umanità raggiungerà la pace.

Alcune parole mi sono sopraggiunte in sogno: “La pace sulla Terra è il prossimo passo nell’evoluzione umana”; speriamo che avvenga al più presto.


1. La parola “compassion” in inglese non ha il senso pietistico che ha in italiano. Torna alla nota 1 nel testo.↩

?? Il punto di vista del paradigma del dono deve essere messo in pratica in modo consapevole. Io ho cercato di farlo istituendo la Fondazione per una società compassionevole1 (FFACS), e il gruppo più politico (non deducibile dalle tasse), Femministe per una società compassionevole. Dal 1981 pratico la teoria espressa in questo libro, usando le mie risorse per un cambiamento sociale. Prima di formulare la teoria, ho praticato il paradigma del dono in modo meno consapevole, come moglie e come madre.

Bibliografia

Bibliografia

Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema au-tore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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